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LE  FORZE  IN  CAMPO

Le forze pontificie schieravano sul campo 50 lance di cavalleria (ricordiamo che la "lancia" è il termine che designa non solo il cavaliere con armatura pesante, a cui spettava di risolvere la battaglia, ma, con lui altre persone, da tre a sei oppure otto) e 12.000 fanti. Le forze regie, come indicato nell' "Istoria del Regno di Napoli" potevano contare su un numero di combattenti pari a quello pontificio:
«Erano pari di forza i due eserciti».

LA   BATTAGLIA

Accampatosi a circa due miglia dall'avversario, Roberto decise, il 21 Agosto, che era giunto il momento per attaccare. In realtà il suo assalto non fu il classico impatto da cavalleria pesante. Le strategie ma soprattutto le evoluzioni tecniche, nel tardo medioevo, non lasciavano ormai molto più spazio a cariche risolutorie e definitive per le sorti di uno scontro. Per questo, il Malatesta fece giungere dalla città di Velletri un numero importante di balestrieri: «Malatesta, generale delle armi pontificie, allorché militava contro Alfonso Duca di Calabria [...], ordina che la Città spedisse nel suo campo 500 cittadini armati, e fra questi 250 Balestrieri».
La scelta, da parte del Malatesta, di puntare sui balestrieri fu decisiva nelle sorti dello scontro. In effetti nel primo pomeriggio (pare che lo scontro si sia svolto tra le 14 e le 20), iniziò a piovere e questa condizione climatica non solo rendeva impossibile l'utilizzo di armi da fuoco, ma portava le cavallerie, già in difficoltà visto il territorio paludoso in cui si trovavano, in una condizione di poca mobilità. Come raccontato da alcuni storici del XIX secolo: «siccome per la dirotta pioggia le artiglierie nemiche eransi rese inutili, somma strage de' nemici fecero i Balestrieri, essendovene in gran numero. Dal che scorgesi, che in quella stagione servendosi i combattenti della polvere avevano disusato le balestre» (i napoletani nel mese caldo avevano puntato soprattutto sulle armi da fuoco).
A questo punto, partì l'attacco di fanteria pontificia verso il campo fortificato di Alfonso. Ricordiamo che in quel periodo, le fanterie italiane (e quelle pontificie su tutte) avevano un livello qualitativo molto alto, probabilmente non disciplinate come quelle svizzere, ma altrettanto efficaci soprattutto in situazioni tattiche come quella di Campomorto, in cui l'assalto ad una fortificazione campale in aquitrini paludosi non poteva certo essere portato avanti dalle cavallerie pesanti.
Queste ultime entrarono in scena molto più avanti nello scontro, provocando il cedimento finale dell'armata regia e chiudendo le sorti dello scontro. Campomorto fu una delle battaglie più cruente di tutto il secolo e sul campo rimasero circa 1.200 uomini di cui almeno mille erano componenti dell'esercito di Alfonso.

AL SOLDO DEGLI   “ARAGONESI”
i fuggiaschi da Campomorto


ALFONSO II D’ARAGONA (Napoli, 4 novembre 1448 - †dicembre 1495) Duca di Calabria, fu Re di Napoli dal 25 gennaio 1494 al 1495.
Primogenito di Ferdinando I di Napoli, detto Ferrante, e della sua prima moglie Isabella di Clermont (figlia di Tristano Conte di Copertino e di Caterina Orsini di Taranto), cugino di Ferdinando il Cattolico (Re di Aragona e reggente con la moglie Isabella di Castiglia, della Spagna unificata).
Quando, nel 1465, sua madre Isabella di Clermont morì, Alfonso ereditò i suoi possedimenti feudali, compreso il diritto al trono di Gerusalemme. Nel 1458, alla morte del nonno Alfonso I il Magnanimo, suo padre divenne re di Napoli. Nel 1463 morì suo zio Giovanni Antonio Orsini Del Balzo, Principe di Taranto, che lasciò in eredità al quindicenne Alfonso alcune sue proprietà.
Nel 1482 a seguito della guerra generale che si scatena in Italia per il dominio di Ferrara, da parte della Serenissima, il Duca Alfonso muove con il suo esercito per portare aiuto agli Estensi e nella sua avanzata verso nord, invadendo lo Stato pontificio, occupa alcune città dei castelli e fa scorrerie alle porte di Roma. Da qui, però, parte il contrattacco dell’esercito papale; così costretto, Alfonso arretra da Lanuvio alla volta di Torre Astura e pianta le tende nei pressi di San Pietro in Formis, protetto da pianure boscose, da paludi e da due torrenti, con 2500 cavalli e 1500 fanti.
Come già accennato, il Duca di Calabria colloca la cavalleria al centro, la fanteria ai lati e l’artiglieria sui rialzi del terreno. La mattina del 21 agosto 1482 sono respinti gli attacchi portati dalle truppe pontificie prima e dalla cavalleria poi; nella seconda ondata gli aragonesi contrattaccano, ma sono costretti a ripararsi dietro il secondo torrente: a questo punto si trovano in grande difficoltà, perché 200 cavalli leggeri e 1500 fanti, condotti da Jacopo Conti, riescono ad attaccarli di fianco ed alle spalle.
Lo scontro, che dura sei ore, risulta uno dei più sanguinosi della seconda metà del ‘400 in quanto rimangono sul terreno circa 1500 morti: Alfonso, in particolare, perde oltre 1300 uomini tra morti e feriti, più di 300 uomini d’arme sono inoltre catturati. Tutte le compagnie turche rimaste sono costrette alla resa. Il Duca di Calabria riesce a fuggire dalla disfatta di Campomorto, ma sulla sua fuga le notizie raccolte sono discordanti. Secondo le più attendibili, egli fuggì a Nettuno, rubò una galea e con pochi uomini sbarcò a Terracina, dove riorganizzò i resti dell’esercito.
Quando la notizia della disfatta di Alfonso giunge a Napoli, Ferdinando, preso dal panico, dà ordine di trasferire altre truppe verso Terracina.
Alla morte del padre, nel 1494, Alfonso ascese al trono come re di Napoli e di Gerusalemme.
Il suo regno era destinato ad essere breve poiché, alla sua ascesa al trono, l’invasione dell’Italia da parte del Re di Francia Carlo VIII era ormai imminente. Carlo, istigato da Ludovico Sforza che aspirava a prendere il potere a Milano ai danni del nipote Gian Galeazzo, genero di Alfonso, era intenzionato a reintegrare gli Angiò nel regno di Napoli e a mettere le mani anche sul titolo di Re di Gerusalemme. L’invasione del settembre 1494 terrorizzò Alfonso e per una serie di cattivi presagi, nel gennaio del 1495 egli abdicò a favore di suo figlio Ferdinando e fuggì in Sicilia, dove si ritirò in un monastero, mentre Carlo VIII entrava a Napoli il 22 febbraio 1495. Alfonso morì a Messina alcuni mesi dopo il 18 dicembre 1495.
Come suo padre, Alfonso convolò a nozze due volte. La prima moglie fu Ippolita Sforza, che sposò il 10 ottobre 1465 a Milano ed ebbe tre figli:
- Ferdinando (nato il 26 agosto 1469), detto Ferrandino, dal 1495 fu re Ferdinando II di Napoli ma anch’egli regnò per appena un anno.
- Isabella (nata il 2 ottobre 1470), duchessa di Milano (per aver sposato il duca di Milano Gian Galeazzo Sforza, nipote di Ludovico il Moro, dal quale fu poi spodestato), e divenne poi duchessa di Bari.
- Piero (nato il 31 marzo 1472), fu Principe di Rossano.
E due figli con la seconda moglie Trogia Gazzella:
- Sancha d’Aragona (nata nel 1478 a Gaeta).
- Alfonso III d’Aragona (nato nel 1481 a Napoli), Principe di Salerno, Duca di Bisceglie e secondo marito di Lucrezia Borgia.
Lo stendardo di Alfonso - Particolare, fu lo stendardo portato dal Duca di Calabria a Campomorto (come scrive Mons. Paolo Giovio nel 1556): «e fu, che approssimandosi sopra la guerra il giorno della battaglia di Campomorto, sopra Velletri, per esortare i suoi capitani e soldati, dipinse uno stendardo con tre diademe di fanti insieme, con un breve d'una parola in mezzo: VALER, significando che quel giorno era da mostrare il valor sopra tutti gli altri».

   
 

"Alfonso D'Aragona Duca di Calabria"
medaglia di Andrea Guacialotti - 1481

 

BAYAZID II (1448 - †1512) Sultano dal 1481, figlio di Maometto II.
Regnò per trent’anni, durante i quali continuò l’opera di espansione del padre. Ma fu anche protettore di artisti e poeti, tanto che anche Leonardo da Vinci gli sottopose il progetto per la costruzione di un rivoluzionario ponte sul Bosforo. La dipendenza del sultano dai giannizzeri rafforzò molto il loro potere e Bayazid fu infine obbligato ad abdicare a favore del figlio Selim I.
Patrono delle arti, Bayazid fece costruire la moschea di Costantinopoli, ultimata nel 1505, uno dei migliori esempi di architettura ottomana.
Nel 1482 marciò alla volta di Torre Astura e piantò le tende nei pressi di San Pietro in Formis, protetto da pianure boscose, da paludi e da due torrenti.
Sfruttò la posizione favorevole ed attese il nemico per lo scontro, che secondo lui: “Una strepitosa vittoria gli apriva le porte di Roma”.
Bayazid collocò la cavalleria al centro, la fanteria alle ali e l’artiglieria sui rialzi del terreno. La mattina furono respinti gli attacchi portati dalla fanteria pontificia prima e dalla cavalleria successivamente, ma il Malatesta gli diede ancora scacco, perché sostituì le schiere stanche del combattimento con altre fresche e piombò nuovamente sul nemico.
Gli ottomani contrattaccarono, ma furono costretti a ripararsi dietro il secondo fossato: in quel momento ci fu la fase decisiva della battaglia.
Le compagnie di ventura di Jacopo Conti, che nella notte precedente, con le guide veliterne, si erano infiltrate nella zona paludosa e boscosa riuscirono a prendere di fianco ed alle spalle i turchi. Per evitare d’essere stritolato nella morsa, Bayazid, viste le gravissime perdite, fuggì con pochi turchi verso il mare ed arrivò con un’imbarcazione a Terracina.
Nell’autunno del 1499, nel corso dell’ennesima guerra con Venezia, il sultano Bayazid II ordinò alle sue truppe di risalire la Dalmazia e di entrare dal Patriarcato di Aquileia (Friuli). Le milizie venete, incapaci di fronteggiare un esercito forte di ben 17000 cavalieri, quasi non opposero resistenza. La paura fu grande, alimentata dalle notizie che arrivavano, e descrivevano non solo le stragi ma anche la ferocia con cui venivano compiute.
Ovunque, nelle chiese gremite, si levava una nuova invocazione: "A flagello Turcorum libera nos Domine".
E quel nome terribile, Bayazid, che passava di bocca in bocca, la gente trasformò in Bausette. Mai, dai tempi di Attila, un condottiero, al solo nominarlo, aveva suscitato tanto terrore.
Da lui la Serenissima, con il Doge Giovanni Mocenigo, finì per ottenere con la diplomazia quello che non era riuscita a conquistare con le armi: prima una tregua e poi la momentanea pace che fu siglata con un trattato nel 1503.
Il pericolo era finito ma quel nome, Bausette, anche se successivamente andò sbiadendosi il ricordo di quei tragici giorni, restò per sempre nella memoria popolare, una parola capace di evocare paura.

   
 

"Bayazid II"

 

 

... e gli altri fuggitivi:

Giovanni Antonio da Pavia
Vittorio da Vercelli
Giovan Paolo di Montenegro
Pietro Antonio Tagliazocchi
Giacomo d’Aversa
Lancillotto da Campi
Giacomo da Brescia
Pietro Antonio da Castellazzo
Giovanni Colonna
Giacomo da Muzzano
Antonio Filomarino



Giacomo di Limonte
Giorgio Carafa
Pisano da Colonia
Veneziano
Guglielmo Pesce
Ercole Bernardo
Petruccio da Siena
Tisino
Tommaso da Bologna
Francesco Guallo
Pietro Antonio di Vicario




Bibliografia

Moreno Montagna - “Passione Nostrana” poema cavalleresco
                                           (stampato nel giorno bisestile del 2008)

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