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La pace del 1480 tra Lorenzo de’ Medici e Ferdinando I re di Napoli aveva prodotto il malcontento del Papa e dei Veneziani. Quest’ultimi, non si sono spinti, pur potendo con la loro flotta impedire ai Turchi lo sbarco d’Otranto, anzi qualcuno crede che siano stati proprio loro, animati da gelosia, ad indurre il sultano a questa spedizione; il Papa, che temeva gli Ottomani, finì con l’adattarsi a quella pace. Finito il pericolo, egli si lasciò negativamente guidare ad accrescere la sua potenza e volse il suo appetito verso quella Venezia con cui nel maggio dell’80 aveva stretto alleanza.
Sobillatore di questa nuova politica papale era il nipote, Girolamo Riario, che nel settembre del 1480, dopo la morte di Pino degli Ordelaffi, si era impadronito di Forlì e ne aveva ricevuta la nomina dallo zio papa Sisto IV.
Con questa investitura il Riario pur se aveva di molto ampliato i suoi territori non era ancora contento, la sua massima aspirazione era il possesso di Ferrara. Per ottenere questo suo scopo si recò a Venezia e, a nome del Papa, propose alla Serenissima di muovere guerra agli Estensi.
A quel tempo Venezia non vedeva di buon occhio i confinanti, per le molteplici scaramucce che si generavano, sia per i dazi sia per il sale ed altro, oltre a Firenze, Napoli e Milano, da tempo Venezia disdegnava Ercole I anche perché sposo di Eleonora d’Aragona, figlia del re di Napoli.
Per questo i Veneziani, si accordarono con Sisto IV per un’azione contro il Duca Ercole I, con il patto che, cacciati gli Estensi, Ferrara sarebbe stata ceduta al Riario, Reggio e Modena sarebbero passate sotto la Serenissima.
La guerra scoppiò nel maggio del 1482 e due gruppi si fronteggiarono: da una parte il Papa, la repubblica di Venezia, Riario signore d’Imola e Forli, i Genovesi, il Marchese di Monferrato e Pier Maria de’ Rossi Conte di S. Secondo; e dall’altra, Ercole I di Ferrara, Ferdinando re di Napoli, Ludovico il Moro, il marchese Gonzaga di Mantova, Giovanni Bentivoglio di Bologna e la casata dei Colonna che in quel tempo si trovava il Papa contro.
Così la penisola fu divisa in campi di battaglia: nello stato Pontificio i Colonna di Paliano uscivano dalle loro fortezze e predavano le campagne arrivando fin sotto le mura di Roma, spalleggiati dai Savelli ma ostacolati dagli Orsini, mentre Lorenzo Giustini, rivale di Niccolò Vitelli, devastava il territorio di Città di Castello. In Romagna il Bentivoglio contro il Riario; Ibletto dei Fieschi scompigliava i confini del ducato di Milano e Pier Maria de’ Rossi dava scacco nel parmense alle milizie di Ludovico il Moro.
Ma il principale scontro si svolgeva ai confini di Ferrara, ed aveva il comando delle forze veneziane Roberto da Sanseverino, il quale già all’inizio del ‘82 si era scontrato con Ludovico il Moro. Egli confermò in questa guerra le sue ottime abilità di condottiero, coadiuvato ottimamente dai suoi capitani, tra cui si distingueva Damiano Moro. L’esercito nemico era comandato da Federico di Urbino che, benché la sua eccellente perizia, fu sempre tenuto in scacco dal Sanseverino.
Nel mentre il duca Alfonso di Calabria, con l’esercito napoletano era entrato nello stato Pontificio. Contro di lui Sisto IV mandò il prode Roberto Malatesta che, il 21 agosto, costrinse il Duca a combattere a Campomorto, presso Velletri. Violentissimo fu lo scontro, e dopo 6 terribili ore di lotta i Napoletani vennero sconfitti, ed Alfonso in fuga deve la sua salvezza a pochi Turchi, che dopo la resa d’Otranto erano passati al suo soldo.
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"Cartina d'Italia nella divisione di fine '400" |
Fortunatamente moltissimi documenti sono giunti fino a noi per cui sappiamo anche che Venezia è stata sempre intenzionata a conquistarsi una signoria sulla terra ferma, e nel periodo di questa storia (seconda metà del ‘400) muove contro la Ferrara di Ercole I, signore della città romagnola.
Guidate da Roberto Sanseverino le truppe veneziane scatenano una lunga guerra contro Ferrara. A schierarsi con i ferraresi il re di Napoli Ferdinando I d’Aragona, il marchese di Mantova Federigo Gonzaga, il signore di Bologna Giovanni II Bentivoglio e più tardi interviene anche il duca di Milano Ludovico il Moro. Per antipatie personali a schierarsi con i veneziani (proprio quella Venezia che non ha buoni rapporti con la Chiesa) troviamo papa Sisto IV. Il suo intervento provoca l’allargamento della guerra che si estende improvvisamente nel Lazio, in Abruzzo, e in Puglia, dove i veneziani allargandosi attaccano i possedimenti degli Aragona, guidati da Alfonso II Duca di Calabria.
Il Duca di Calabria quindi invade lo Stato Pontificio, e con il pretesto di dover arrivare a Ferrara per dar manforte al cognato Ercole I, si allea con i Colonna di Paliano contro Sisto IV.
Il 18 agosto 1482, Roberto Malatesta signore di Rimini e capitano pontificio si muove da San Giovanni in Laterano, dov’era accampato, verso i Colli Albani, per assalire i napoletani e i loro alleati Colonna e Savelli.
In quel momento, Alfonso che già aveva occupato Terracina si trova a Lanuvio. Indietreggia verso Torre Astura e si accampa presso San Pietro in Formis, in località Campomorto. Schiera le sue truppe in prossimità di un torrione costiero
([F] 22^ sestina, 2^ riga) , e sistema il campo circondato da paludi. I napoletani erano in minoranza, e perciò si erano ben fortificati. Quindi i fatti della Guerra di Ferrara renderanno protagonista anche la nostra città, infatti il 21 agosto 1482 presso Velletri si terrà una importante battaglia tra gli eserciti di Sisto IV e Ferdinando re di Napoli.
L’esercito pontificio guidato da Roberto Malatesta, di passaggio a Velletri chiese 500 uomini tra cui 250 Balestrieri che come risaputo erano considerati tra i migliori dell’intero stato. La battaglia fu vinta dai pontifici e a Velletri per ringraziamento dell’aiuto gli furono assegnati: alcuni beni dei Savelli dei territori limitrofi, le artiglierie turche, e delle insegne di quest’ultimi come vessilli di vittoria.
Sempre fra i napoletani, vengono catturati 360 uomini d’arme con 33 capisquadra. Tutti sono condotti a Velletri per essere inizialmente rinchiusi nella chiesa di San Clemente e, poi, essere condotti a Roma.
Il trionfo col quale il Malatesta fu accolto in Roma, fu degno di un console romano, mentre il Papa lo aspetta ed accoglie sulla soglia del Vaticano: un cardinale teneva la briglia del cavallo del trionfatore, il sacro collegio veniva dietro a lui, ed ancora dietro i Capitani di Ventura con i prigionieri catturati a Campomorto, questi servirono a formare per le vie di Roma un corteo trionfale anche in onore di Girolamo Riario: fra i catturati che maggiormente creavano oggetto di curiosità c’erano: Troiano Caracciolo Duca di Melfi, Antonio Tedeschini Piccolomini duca d’Amalfi nipote di Pio II (e fratello del futuro Pio III), e Vicino Orsini figlio del gran Connestabile del Regno di Napoli.
Il Capitano Generale delle truppe veneto/pontificie Roberto Malatesta vittorioso nella cruenta battaglia che devastò la zona, fu da questo funesto terreno di paludi ricambiato con la malaria; e dopo il trionfo a Roma, morì dov’era ospitato, nel palazzo del cardinale di Milano Stefano Nardini il 10 di settembre. Sul suo catafalco, sepolto con sontuose onoranze in S. Pietro, fu scritto: “veni, vidi, vici. Victoriam Sixto dedi. Mors invidit gloriae” (giunsi, ho visto e vinsi. Ho dato la vittoria a Sisto. La morte sorride alla gloria).
I napoletani, invece, ridotti a mal partito, accetteranno l’armistizio firmato il 28 novembre 1482.
Solo intorno al 1300, la zona ospitò nuovamente insediamenti umani quando lo Stato Pontificio istituì la Domuscola ad Formias (divenuta poi San Pietro in Formis) dove si contavano meno di 1000 abitanti. Il nome Campomorto si originò dalla mortalità che ne svuotò l’area prima del 1400, e non dalla battaglia combattuta nel 1482, tra il duca di Calabria Alfonso e Roberto Malatesta generale di Sisto IV.
Con una legge del 1928 il regime dell’epoca decide di bonificare l’intera area, l’intervento di prosciugamento del territorio si attua dal 1932 al 1936. Campomorto la più vasta area della Campagna Romana (8620 ettari ca.) nel XIX sec. faceva parte del comune di Nettuno, solo nel recente 1958 è stata chiamata Campoverde. Oggi la più estesa frazione del comune di Aprilia.
Nel vecchio borgo c’è un edificio in rovina le cui fondamenta risalgono all’epoca medioevale, restaurate ai primi del novecento e rimaneggiate in tempi successivi continuano nel loro degrado.
[A] 5^ sestina, 1^ riga All’epoca dei fatti siamo sul Colle Vaticano, cent’anni dopo, nel 1583 Papa Gregorio XIII iniziò la costruzione di una dimora estiva romana, in una area considerata più salubre del Colle Vaticano o del Laterano, una dimora sul colle Quirinale, che venne affidata all’architetto Ottaviano Mascarino.
I lavori si conclusero nel 1585, e quello stesso anno la morte del Papa impedì al Mascarino di avviare un secondo progetto che prevedeva l’ampliamento del palazzo per trasformarlo con ai fianchi a portici paralleli e grande cortile interno. L’edificio costruito da Mascarino è ancora riconoscibile nella parte nord del cortile d’Onore, caratterizzata da una facciata a doppia loggia e sormontata dalla torre panoramica oggi nota come torre dei venti, successivamente innalzata con la costruzione del campanile a vela su progetto di Carlo Maderno e Francesco Borromini.
Le secolari residenze personali dei pontefici, che cambiarono spesso di sede, non solo romane, confluirono a Roma quando Sisto V, nel 1587 fece acquistare il terreno dalla Camera Apostolica, infatti l’edificio di Ottaviano Mascarino era stato costruito su un terreno ancora appartenente alla famiglia Carafa affittato a Luigi d’Este. Solo dopo l’acquisto, Sisto V intervenne per ampliare il palazzo servendosi dell’opera di Domenico Fontana, da lui utilizzato in tutte le grandi opere architettoniche e urbanistiche del suo pontificato, dalla costruzione della Strada Pia e Strada Felice e del conseguente crocevia delle Quattro Fontane.
Quasi tutti i papi che seguono, a partire da Paolo V, dimostrano sempre più di privilegiare questo luogo, che diviene la loro sede per periodi sempre più lunghi. Da qui per i pontefici è più facile il contatto con la corte, divenuta ormai un apparato di governo articolato in congregazioni, le cui sedi sono sparse per tutta la città di Roma, soprattutto sulla riva sinistra del Tevere.
Il Quirinale assume il carattere di residenza laica, da dove il pontefice svolge le proprie mansioni politiche e organizzative; mentre il Vaticano, che tra fine Cinquecento e nel corso del Seicento assume l’aspetto che ancor oggi lo diversifica, rimane la sede privilegiata per le funzioni spirituali.
[D] 7^ sestina, 3^ riga La decorazione quattrocentesca delle pareti comprende: i finti tendaggi, le Storie di Mosè e di Cristo, ed i ritratti dei Pontefici. Essa fu eseguita da un singolare gruppo di pittori costituito dapprima da Pietro Perugino, Sandro Botticelli, Domenico Ghirlandaio, Cosimo Rosselli, assistiti dai rispettivi e più stretti collaboratori tra i quali spiccano: Biagio di Antonio, Bartolomeo della Gatta e Luca Signorelli, mentre per l’inaugurazione Pier Matteo d’Amelia dipinse sulla volta un cielo blu stellato d’oro.
Pier Matteo Lauro de’ Manfredi da Amelia, detto Piermatteo d’Amelia, (†1505 ca.) è citato per la per la prima volta come garzone di Filippo Lippi, nella decorazione dell’abside del Duomo di Spoleto nel 1467. Tra il 1479 e il 1482 fu a Roma dove dipinse la volta della Cappella Sistina. A quest’epoca risalgono anche le seguenti opere in marmo: la transenna, la cantoria (posto per i cantori) e lo stemma pontificio sopra la porta d’ingresso. La cappella fu consacrata al culto dell’Assunta il 15 agosto del 1483 da Sisto IV; ma già il nipote Giulio II (Giuliano della Rovere, papa dal 1503 al 1513), appena 25 anni più tardi, decise di modificare in parte le decorazioni della volta e le lunette, affidando l’incarico al genio: Michelangelo di Lodovico Buonarroti Simoni (Caprese M. 6 mar. 1475 - †Roma 18 febb. 1564).
Il Buonarroti viene incaricato da Giulio II nel 1508, di abbellire il soffitto, e di togliere le stelle dorate sul cielo blu, opera come detto di Piermatteo, perché affossava i dipinti laterali; il lavoro venne completato nell’ottobre 1512, e il giorno di Ognissanti (1° novembre) Giulio II inaugurò la Sistina con una messa solenne.
In seguito tra il 1535 e il 41, Michelangelo dipinse il Giudizio Universale sopra l’altare, richiesto da Alessandro Farnese, papa dal 1534 al ‘49.
Anche qui il racconto sarebbe lungo, ma un accenno è di rigore.
Scorazzavano in Europa subito dopo il Mille, giunsero in Italia verso il 1340 guidate da capitani stranieri, coi nomi spesso italianizzati, come: Fra Moriale, Guarnieri, Corrado Lupo, Conte Lando e Giovanni Acuto.
Furono condannate nel 1179 dal Concilio Laterano I e nel 1366 da una bolla di Papa Urbano V: questi mercenari scesi in Italia, fecero la fortuna e la gloria di alcuni capitani, la dove, le signorie, i comuni e le città/stato rendevano necessaria la presenza di truppe, che non conveniva, per motivi economici e politici, reclutare e addestrare all’interno del proprio territorio.
Queste compagnie in realtà sono delle bande, che assoldano liberamente uomini d’arme di ceto sociale diverso, pronte a dare i propri servigi al primo offerente, e contare su altri introiti provenienti da saccheggi e ricatti, perché, quando non sono salariate dai nobili attuano il banditismo, imponendo taglie a villaggi ricchi e dando alle fiamme quelli poveri.
Rapinano chiese e conventi di ori e di scorte, saccheggiano i granai dei contadini, torturano coloro che cercano di nascondere i propri beni, senza curarsi se religiosi o anziani: violentano vergini, suore e madri, le migliori le rapiscono per opprimerle nella brigata e i ragazzi per renderli loro servitori.
Le Compagnie più malvagie diventano famose, attirando un numero sempre maggiore di gentaglia, tanto che qualcuna riuscirà a raggiungere 2000 componenti, tutti perfettamente equipaggiati sia a cavallo che a piedi.
Uno dei Capitani più famosi, Fra Moriale, chiamato così perché abate dei Cavalieri di S. Giovanni, ha al seguito: segretari, contabili, giudici ed anche una forca, per eseguire personalmente condanne a morte. Si permette di chiedere la rilevante somma di 150.000 fiorini d’oro a Venezia per muovere guerra a Milano. Diventerà molto ricco e si sentirà talmente sicuro di sé da recarsi a Roma senza scorta, su invito di Cola di Rienzo che lo farà catturare e condannare a morte.
Lo si deve a Lodrisio (Ambrogio) Visconti se per la prima volta le bande sono ordinate in una compagnia (di S. Giorgio), ma fu una esperienza infelice, travolta e distrutta da un altro italiano, Ettore da Panigo.
Capitanate da italiani, altre compagnie nascono con alternanti destini, ricordiamo la Compagnia della Stella di Astorre Manfredi, la Compagnia del Cappelletto di Niccolò da Montefeltro, e la Compagnia della Rosa comandata da Giovanni da Buscareto.
La compagnia che costituì una svolta, fu senza dubbio quella di San Giorgio fondata da Alberico da Barbiano dopo le stragi di Cesena, questa va ricordata come la prima compagnia di soli italiani, ebbe leggi e statuti esclusivi, e ricevette la benedizione del pontefice.
ALBERICO DA BARBIANO (Barbiano di Cotignola 1348 - †Città di Pieve aprile 1409), Conte di Barbiano, Signore di Giovinazzo, Trani, Lugo, Rocca Nogarole, Castel Bolognese, Granarolo, Dozza, Montecchio d’Emilia, Conversano, Tossignano. Papà di Ludovico da Zagonara e Manfredo, fratello di Giovanni, genero di Guido da Polenta, suocero di Giovanni Colonna.
Con Alberico inizia una nuova era, i capitani di ventura italiani rimpiazzarono quelli stranieri, le compagnie non sono più create a caso, è il capitano che sceglie i suoi uomini e non viceversa, i primi arruolati sono gli amici, i parenti e i vecchi camerati, egli fece giurare ai suoi odio contro gli stranieri, ed iniziò a prender piede l’uso soldatesco di qualificarsi col nome della città. Dalla Compagnia di San Giorgio uscirono in seguito famosi condottieri come Ugolotto Biancardo, Jacopo dal Verme, Facino Cane, Ottobuono Terzi, Braccio da Montone e Muzio Attendolo Sforza.
Inizia un arruolamento selezionato, è il capitano che addestra, arma gli uomini e li paga, trattando l’attività mercenaria direttamente con i signori, fissando un preciso contratto, “la condotta”, così il capo diviene: Condottiero.
La condotta, specificava la durata, le condizioni dell’ingaggio, il numero degli uomini e delle armi; si ha notizia delle prime condotte regolari nella seconda metà del trecento.
Firenze fu tra le prime città stato, ad organizzarsi ed ha distinguere due tipi di condotta:
la prima “A soldo disteso” quando il condottiero, era disposto a militare con un determinato numero di fanti e di cavalieri, agli ordini di un capitano generale, di una città, o di una signoria.
La seconda “A mezzo soldo” quando il condottiero, combatteva in posizione secondaria rispetto al capitano generale, non percepiva paga piena, ma correva rischi inferiori. Il condottiero una volta firmato la condotta, e dopo aver ricevuto un acconto, doveva far mostra dei suoi uomini, armi e cavalli.
Terminata la condotta, che di solito durava sei mesi, il condottiero era libero di andare con chi voleva, pur vigendo la clausola che andando con un nemico, non poteva combattere contro il precedente padrone per due anni.
Esisteva un’altra condotta, quella marina, Genova iniziò a redigerla agli inizi del ‘400, e lo Stato della Chiesa non fu da meno, mentre Venezia non volle mai cedere a questo tipo di condotta; ma questa è un’altra storia.
Le cifre guadagnate variano secondo il prestigio del capitano, e delle milizie impiegate: Micheletto Attendolo cugino di Muzio Sforza, nel 1432 riceveva da Firenze, 1000 fiorini il mese, più altri 900 per la compagnia, Guglielmo di Monferrato nel 1448 percepiva da Francesco Sforza 6.600 fiorini il mese, comprensivo di settecento lance e cinquecento fanti, Francesco Gonzaga nel 1505 riceveva da Firenze 33.000 scudi annui per una compagnia di 250 soldati, mentre Francesco Maria della Rovere sempre da Firenze prese 100.000 scudi annui per soli 200 uomini.
Cifre sempre notevoli, così, i condottieri furono spesso annoverati tra i clienti più ricercati dalle banche di Venezia e di Firenze. Da segnalare: la notevole crescita di questi personaggi sul piano politico, e certe difficoltà economiche in cui si dibattevano i signorotti, tanto che si pensò di risolvere il pagamento assegnando ai condottieri una parte del proprio territorio, o di quello conquistato, un vero e proprio rimescolamento feudale della penisola.
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"Alberico da Barbiano" |
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Nel medioevo i comuni della penisola iniziarono a batter moneta aurea (il fiorino di Firenze e pontificio, il genovino di Genova, lo zecchino di Venezia), ed anche altri stati europei si adattarono a questa soluzione. Ma ci fu ben presto anche la contraffazione delle monete (Mastr’Adamo, falsificò il fiorino fiorentino e per questo fu collocato da Dante nell’Inferno), come la limatura ed altre alterazioni.
Così per quelli che rovinavano la moneta (in qualsiasi modo e sotto qualsiasi forma) era prevista la pena di morte.
Il fiorino aveva da un lato il giglio fiorentino, dall’altro l’immagine di San Giovanni (arma e santo = testa e croce): la moneta d’oro usata da Firenze a partire dalla metà del 1200 era una moneta solidissima, dal valore inalterato per secoli, cantata come visto persino dai poeti.
Per far fronte alla costosissima guerra contro Milano, fu introdotto a Firenze da Giovanni di Bicci, il “catasto”. Per i ricchi furono guai. Il catasto fu colto come un trionfo popolare e la gente ebbe il piacere di vedere più che decuplicata la tassa di chi solitamente pagava un’inezia. Non c’erano appigli: si dovevano elencare davanti al funzionario del fisco tutte le proprietà e i titoli. Nel catasto del 1457, a svenarsi per il bilancio dello Stato furono Cosimo di Giovanni e Pierfrancesco Medici, pagando oltre 570 fiorini a testa. I signori di Firenze si affrettarono ad abolirlo subito dopo la morte di Lorenzo il Magnifico.
Secondo i calcoli del Magnifico, al momento della morte del padre, nel 1469, il patrimonio dei Medici ammontava a 237.988 fiorini. Per avere un paragone, è utile ricordare che un operaio generico poteva guadagnare dai 15 ai 20 fiorini d’oro l’anno; che una rendita annua di 150-200 fiorini era considerata adeguata a mantenere decorosamente una famiglia benestante; una bella fattoria nei dintorni poteva costare 600/800 fiorini; un grande palazzo costruito nel primo ‘400 valeva al massimo 4000 fiorini. In breve, i Medici avevano una tal fortuna con cui potevano competere ben poche altre famiglie europee del XV secolo.
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"Fiorino d'oro del 1432" |
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GIACOMO (o Jacopo) ATTENDOLO - MUZIO SFORZA conte di Cotignola, Conte di Serracapriola, barone di Torremaggiore, Signore di Chiusi, Benevento, Acerra, Manfredonia, Montecchio Emilia, Orbetello, Troia, Vasto, San Severo, Foggia, Acquapendente, Barletta, Trani. Padre di Francesco, Alessandro, Giovanni, Leone, Bosio; fratello di Bosio, Bartolo e Francesco; zio di Foschino e Marco; suocero di Ardizzone da Carrara, Leonetto da San Severino e Manfredo da Barbiano. (Cotignola 28 maggio 1369 - †Pescara 4 gennaio 1424) militare e capitano di ventura italiano.
Soprannominato Muzzo o Muzio (Giacomuzio), chiamato Sforza (Forte) per la sua prestanza, capitano di ventura della Romagna al servizio dei re Angioini di Napoli. Fu il capostipite degli Sforza, fu la dinastia di condottieri italiani che ebbe più fortuna.
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"Muzio Sforza"
dall'incisione di G. Dall'Olio |
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ERASMO DA NARNI - IL GATTAMELATA (Narni 1370 - †Padova 1443) Nato da un fornaio di nome Pietro, detto “Strenuo”, robusto, dinamico ed infaticabile egli si vide assegnare l’appellativo di Gattamelata - secondo un biografo Giovanni Eroli - “per la dolcezza de’ suoi modi congiunta a grande furberia, di cui giovossi molto in guerra a uccellare e corre in agguato i mal cauti nemici e pel suo parlare accorto e mite dolce e soave”. Per alcuni, ed a parer mio, potrebbe averlo ricavato, dal nome di sua madre Gattelli Melania.
Ha già trent’anni quando lo nota Braccio da Montone e lo prende con sé, insegnandogli molto, ma quello che apprende di più è l’astuzia e la rapidità.
Celebre una sua frase “Narnia me genuit - Gattamelata fui”, incisa presso la casa natia a Narni.
La sua armatura fatta di 134 pezzi alta 206 cm. per 122 di torace e 74 di spalle, pesante 49 chili: la si può ammirare a Venezia, nel Palazzo Ducale.
Capitano di ventura si pone al soldo di Firenze sotto Cosimo de’ Medici.
La sua tranquillità piace a Martino V, che lo vuole al suo servizio nel 1427, occorre al Papa un uomo di polso che sistemi e plachi le città irrequiete dentro i confini nordici dello Stato della Chiesa.
Il Gattamelata si porta l’amico Brandolino Brandolini di Bagnocavallo, suocero di sua figlia Polissena: inizia così, pressoché tranquilla, una condotta di sette anni: ormai è sulla sessantina e potrebbe non avere altri incarichi.
Non è gradito al nuovo papa Eugenio IV che non paga le milizie del Gattamelata, lo farà per contro Venezia, alla quale piace il suo indole pacato.
Abile nella scienza militare, difende quindi la Serenissima dagli attacchi dei Visconti e riesce a conquistare Verona. Famosa la sua strategia per superare l’accerchiamento di Nicolò Piccinino: da Verona per arrivare a Rovereto nel settembre del 1438, aggira il lago Garda facendo il suo pèriplo.
L’anno seguente il Gattamelata è colpito sul Garda da un ictus, con una barca il settuagenario condottiero è trasportato a Verona, guarisce ma con la guerra ha finito, la Serenissima gli toglie il comando generale. Con la condotta vivrà da pensionato, sarà in seguito chiamato a far parte della nobiltà veneta, con privilegi aristocratici.
Nell’autunno de 1442 si ritira a Padova dove muore il 16 gennaio 1443, viene sepolto nella basilica del Santo con solenni funerali di stato, alla presenza del Doge. La famosa statua in bronzo, opera di Donatello, che si affaccia sul piazzale della Basilica a Padova e degna delle sue imprese.
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"Il Gattamelata"
statua equestre in bronzo di Donatello |
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GIOVANNI DE MEDICI - DALLE BANDE NERE (Forlì 6 apr. 1498 - †Mantova 30 nov. 1526) Figlio di Giovanni de’ Medici il Popolano e Caterina Riario Sforza, sposa Maria, figlia di Jacopo Salviati nel 1517, da cui ebbe il figlio Cosimo.
Eccellente condottiero, combatte come capitano di ventura al soldo di diversi potenti dell’epoca.
Quando il futuro suocero Salviati, viene nominato ambasciatore a Roma nel 1513 Giovanni lo segue, ed entra nelle milizie pontificie, mettendosi al servizio dello zio, papa Leone X de’ Medici, che gli assegna un comando di 100 uomini. Partecipa alla guerra di Urbino tra il 1516-17, sotto le insegne del Papa. Pietro l’Aretino, suo amico fraterno, lo descrive come un generoso che concedeva alle truppe tutti i bottini di guerra.
Nel suo accampamento, durante i periodi di calma, caproni, cinghiali e selvaggina rosolavano su enormi spiedi, mentre lui d’animo vivace e gaudente, partecipava a tornei e festini: era infedele pur se conteso dalle donne, e nonostante la sua fama di grande amatore.
Machiavelli descrive la sua figura, come avvolta da un alone di leggenda, è capace di unificare l’Italia.
Quando il 1° dicembre 1521 muore papa Medici, Giovanni fa annerire le proprie insegne di capitano di ventura, che fino ad allora sbandieravano a righe bianche e viola, come segno di lutto perenne, diventando così famoso presso i posteri come Giovanni dalle Bande Nere.
Dopo la morte di Leone X, fu al soldo dei francesi per cinque anni. Ferito da un colpo alla tibia, il chirurgo lo opera ben al di sotto della lesione, limitandosi ad amputare il piede.
Girolamo Giovanni Rossi, nipote del condottiero Giovanni, scrisse: “Oltre alla gravità della ferita e all’intempestività delle cure, Giovanni morì per l’ignoranza del chirurgo, il quale avendo a segare quella gamba vi lasciò del percosso tanto che il rimanente si putrefece, talché ne seguì la morte sua…”.
Giovanni muore di cancrena a soli 28 anni, lascia la moglie Maria e il piccolo Cosimo, futuro Granduca di Toscana.
Subito dopo la morte, si era diffusa la voce che il Capitano fosse stato ucciso con coltelli avvelenati su commissione di Federico Gonzaga.
A distanza di secoli, i nuovi esami del 1945 sembrano dar ragione agli antichi sospetti ed inserire nuovi misteri sull’epopea dei Medici, inoltre in quella occasione viene recuperata la sua armatura, dove oggi la si può ammirare al Museo Stibbert di Firenze.
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"Giovanni dalle Bande Nere"
di Sebastiano dal Piombo |
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Bibliografia
Moreno Montagna - “Passione Nostrana” poema cavalleresco
(stampato nel giorno bisestile del 2008)
Foto - Wikipedia inciclopedia libera
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