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IPPOLITO ZAPPONI (pittore 1826 - 1895) di Luca Leoni
Il suo talento innato per il disegno e la pittura, spinse le autorità municipali di Velletri, città nella quale era nato nel 1826, ad assegnargli una borsa di studio. Trasferitosi a Roma, Zapponi imparò il mestiere del pittore alla prestigiosa Accademia di San Luca, sotto la guida di Filippo Agricola, figura di primissimo piano nella scena artistica romana.
Vero e proprio direttore dei lavori di un cantiere celebre come quello della Basilica di San Paolo fuori le mura, l’Agricola ebbe modo d’istruire il giovane e promettente Zapponi sull’essenza e sull’infinita potenzialità dell’arte sacra. Quest’ultimo, tuttavia, non riuscì ad emergere, restando nell’anonimato. Fu allora che il municipio di Velletri, come a voler mostrare all’intera comunità cittadina il buon esito dei sacrifici affrontati da tutti per avviare un veliterno alla carriera artistica, lo incaricò di un’opera di grande responsabilità: la pala d’altare per la cappella seicentesca di San Geraldo, Protettore della Città da secoli, in cattedrale.
A partire dal 1868, Zapponi varcò artisticamente i confini della penisola italica, destinando una decina di sue tele al Nuovo Mondo: dopo essere entrato in contatto con religiosi e politici del Québec, eseguì dapprima copie di dipinti celebri di soggetto sacro, poi seppe ritagliarsi sempre più una sua originalità stilistica, soprattutto nei ritratti.
Dipinse la sua ultima opera, San Francesco in adorazione, nel 1878 per i francescani presso Montreal. Poi il silenzio. Ippolito era tornato in quello stesso anonimato degli inizi, quand’era un apprendista al seguito di Filippo Agricola.
Era stato dimenticato anche da quella sua Velletri che, nella persona dello storico dell’arte Basilio Magni, aveva pronunciato pubblicamente un elogio all’artista, poi dato alle stampe, in occasione dell’inaugurazione, nel 1858, della grande tela raffigurante San Geraldo mentre protegge i veliterni dai nemici. Un dipinto profondamente radicato nella memoria visiva dei fedeli di Velletri, che da un secolo e mezzo esatto vi dirigono inevitabilmente lo sguardo prima e dopo aver sostato in preghiera davanti all’immagine di Maria Santissima delle Grazie. Un’opera, il San Geraldo, che insieme ai deteriorati quattro Angeli con i simboli della Passione, affrescati sulla volta della chiesa ottagonale di Santa Maria del Sangue, costituisce uno dei beni lasciati dall’artista ottocentesco Ippolito Zapponi a Velletri, sua città natale, come una sorta di eredità artistico-spirituale. Ebbe fama di “viveur” e non si sposò mai.
Morì a Roma forse il 5 marzo 1895. Il funerale fu celebrato nella chiesa parrocchiale di S. Giacomo in Augusta (decesso nell’omonimo ospedale), zona del suo probabile domicilio. La salma dell’artista fu sepolta il 7 marzo 1895 in una tomba a terra nel cimitero del Verano, poi trasferimento dei resti nell’ossario comune.
PALAZZO COMUNALE
Decretata la costruzione il 12 ottobre 1572, e dopo l’avvicendamento di grandissimi architetti l’opera venne completata solo nel 1720 dopo quasi 150 anni. Entrando dai due portoni sulla facciata nord, a destra c’era la Biblioteca (ricca di 38.000 tomi ed una vasta collezione di manoscritti) e, a sinistra, si trovava il Museo. Attraverso lo scalone si accedeva al piano nobile “principesco per vastità e numero di sale, adorne di quadri, affreschi e mobili in stile” e nell’aula consiliare “fredda, severa e muta spettatrice di tante cose buone e brutte in essa discusse”.
Alle pareti vi erano le vedute del romano Ermenegildo Costantini, per le quali il comune pagò 1945 scudi; i sette grandissimi affreschi dovuti alla scuola dello Zuccari rappresentanti la vita di Augusto in seguito più volte restaurati per poi andare completamente distrutti nell’ultimo conflitto mondiale. (a lato - in testata tre raffigurazioni dei sette affreschi)
Nel palazzo Comunale erano conservate importanti opere d’arte tra le quali meritano di essere ricordate quelle del pittore veliterno Ippolito Zapponi autore di una pregevole tela rappresentante la “Pace”, tre busti in marmo raffiguranti rispettivamente “Gregorio XVI”, il “Cardinal Pacca” ed il “Cardinal Bernetti” scolpiti dall’artista romano Filippo Gnaccarini autore anche del bassorilievo murato nell’antistante palazzo di Giustizia.
L’edificio subì interventi di diversi altri architetti, quali Nicola Giansimoni che si occupò dell’arredamento dell’appartamento del Cardinale situato al secondo piano e Giulio Magni che, agli inizi del secolo, curò il restauro ed il consolidamento delle parti più rovinate del palazzo “superando felicemente ostacoli difficilissimi di statica e di estetica”.
DISPENSARIO ANTITUBERCOLARE - di Anna C.
All’epoca ero Direttrice ASV (Assistente Sanitaria Visitatrice) e dirigevo il Laboratorio di Analisi Antitubercolosi di Velletri, con me c’erano: un’assistente e due medici ed una volta al mese veniva mandato da Roma per altri tipi di visite lo specialista Prof. Covari Luigi.
Dipendevamo dal Consorzio Provinciale Antitubercolare di Roma, ed uno dei miei principali compiti consisteva nell’andare ha far visita alle scuole, ed ai malati che non potevano venire in Ambulatorio, eh … (attimo di pausa) moltissime volte quando non riuscivo ha trovare un mezzo di trasporto: un carretto, un asino, qualche vota sulla canna della bicicletta di un parente del malato, dovevo recarmi sul luogo a piedi, ricordo benissimo che una volta, arrivai a piedi fin dopo Lariano, zona facente parte nel nostro distretto.
Eravamo in piena guerra, ancora non erano sbarcati gli americani ad Anzio, e quella mattina come sempre mi recavo al lavoro nel laboratorio antitubercolare dietro l’ospedale civile Giuseppe Garibaldi. Con spiacevole sorpresa vidi che il cancello era stato danneggiato ed era semiaperto. Entrando vidi dei soldati tedeschi sul piccolo piazzale davanti l’ingresso del laboratorio, anch’esso spalancato: chi si stava radendo, chi si infilava i calzoni e chi gli stivali.
La paura mi stava paralizzando, perché sapevo che i tedeschi occupavano e distruggevano quello che non gli interessava, e sicuramente volevano far di quel posto un loro insediamento. Non so come fu, ma un’idea stramba mi passo per la mente, mi misi le mani nei i capelli e gridai con tutta la voce che avevo in “groppo”: - Tubercolosiiiii!! Tubercolosiiiii!! -
Non servirono altre parole i pochi occupanti del piazzale fuggirono come dei centometristi, mentre uscivano, spingendosi e accalcandosi, dalla porta del laboratorio tutti gli altri. L’immagine chi mi porto dietro da sempre è di tedeschi con calzoni, stivali, elmetto, e fucile in mano fuggire in maniche di mutande. Fortunatamente da allora non si fecero più vedere.
PIAZZA DELLE CARRETTE
Mi suonò strano quando un anziano zio in un suo racconto invece di chiamare Piazza Sagnaco (Piazza San Giacomo poi piazza Umberto I ed infine piazza Caduti sul Lavoro) come tutti, la chiamò Piazza delle Carrette. Chiesi spiegazioni, e lui mi disse che la chiamavano così solo alcuni velletrani, magari, quelli che passavano il maggior periodo dell’anno in campagna e che, tornando in città dopo alcuni mesi di lavoro nei campi o in circostanza di feste patronali, sistemavano i loro carri e carrettini nella prima piazza del paese (perché vietato il transito nel centro) dopo aver tolto gli animali da soma, e fatti abbeverare nella fontana centrale, ognuno se li portava nelle proprie stalle.
Questo tarlo si affievolì nella mia mente man mano che passava il tempo, anche perché non trovavo riscontri da nessuna parte, fin quando non mi capitò la foto che si vede a fianco (forse l’unica del suo genere) dove si vedono parcheggiati molti carretti. Dal particolare si vede anche un cartello di divieto a mezzi rotabili per chi transitava sotto l’Arco dei Legni (si vede uno stipite) verso P.za Mazzini.
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1940 - Convegno Gioventù Femminile Azione Cattolica, Mons. Ruotolo,
Mons. Ettore Moresi, tra la folla la principessa Giustina Ginnetti |
PONTE PIO
Morto Gregorio XVI, che riteneva la via ferrata “opera di Satana”, papa Pio IX, istituì nel 1846 una commissione per le ferro-vie e due anni dopo autorizzava la costruzione della linea Roma-Ceprano che in un primo momento doveva giungere unicamente a Frascati, favorendo così gli abituali movimenti del pontefice nella residenza estiva di Castel Gandolfo.
Fu Oliver York, appaltatore generale del tronco di ferrovia Roma-Velletri a costruire per conto della Compagnia Ferroviaria denominata «Pio Centrale» e diretta da Josè Salamanca, «Ponte Pio» o «Ponte di S. Anatolia» la cui importanza sul piano dell’espressione artistica è finora sfuggita all’attenzione di molti. Fu lo stesso Jork che modificò un forno capace di produrre un acciaio più resistente ed adatto alla produzione di ponti e delle travature metalliche.
Quest’imponente opera, una delle maggiori costruite con tale sistema nell’Europa dell’epoca, presenta una splendida applicazione sulla teoria delle forze per le costruzioni in ferro. Il ponte, ad impalcature è posato sopra due sostegni centrali in ferro, distinti ciascuno in tre ordini di architettura, uno ionico e due dorici, che si innalzano dal fondo del fosso sopra un solido basamento in muro per l’altezza di m. 41, e due sostegni laterali completamente in muratura.
La linea venne inaugurata il 27 gennaio 1862 dallo stesso pontefice, ed a ricordo di tale evento venne posta nella stazione di Velletri una lapide in cui si legge che il “consiglio provinciale della provincia di Marittima (di coi Velletri era il capoluogo) lieto del pubblico incremento, scolpì nuova più solenne ricordanza”, e si esternava “al benefico Pio IX, pontefice massimo, amore e riconoscenza immortale; Egli assicurò il commercio e arricchì la città nostra, ordinando che la ferrovia percorresse Velletri e la Marittima”.
Nei primi anni del 1900, si è reso indispensabile riempire con muro di mattoni le due colonne di ferro che andavano rovinandosi per corrosione. In seguito anche se questi piloni furono lesionati dalle vibrazioni dei bombardamenti della seconda guerra mondiale continuarono il loro sostegno fino al 1962, quando il tutto ponte venne sostituito e vennero costruiti due nuovi piloni in cemento armato. VEDI
GIUSEPPE MARCELLI - medaglie argento e bronzo V.M.
Ricerca della III D elementare G. Marcelli a.s. 2008/9
Maestra S. Quaranta (Velletri 10 novembre 2008)
Quando è nata la scuola, perché è intitolata a Giuseppe Marcelli, chi era?
Fai lo storico insieme ai tuoi compagni.
‹‹ Il progetto di questa scuola trovato al Comune di Velletri è dell’Ing. Fabio Castellani, porta la data del 7 giugno 1965 e si presenta con la scritta “Costruzione Scuola Elementare Zona Sud”. In fine porta la firma del Direttore dell’Ufficio Tecnico Dott. Ing. A. Raimondo. Il tutto è accompagnato dalla relazione tecnica del Comando Provinciale dei VV. FF. di Roma, dove spiega che è: una scuola elementare situata in Viale Gugliemo Oberdan, ha due piani, composta da 24 aule più l’amministrazione la presidenza la palestra ed i corridoi, ed è strutturata in cemento armato e laterizio, con copertura a terrazzo.››
Poi dal libro “Le scuole a Velletri” ricaviamo: -L’incremento della popolazione ha portato ad un necessario aumento dei plessi scolastici. Oltre alle scuole esistenti sono stati istituiti i plessi di Fontana della Rosa, Morice, e G. Marcelli.-
La scuola è intitolata a Giuseppe Marcelli, perché? Perché prima di tutto fu un maestro. Egli era nato a Velletri l’8 marzo 1899 da Amedeo Marcelli ed Elisa Pace fin dai primi anni rivelò ingegno svegliato ed indole bonaria. Intrapresa la carriera degli studi, a 17 anni otteneva il diploma di maestro elementare.
A la voce della patria che lo chiamava a difendere i suoi diritti rispose con entusiasmo, compiuto il corso di scuola militare raggiunse col grado di Sottotenente il glorioso 17° Regg. Bersaglieri. Del suo valore diede prova conto il nemico la sera del 13 giugno 1918 alla vigilia dell’offensiva austriaca su tutto il fronte; per questa azione ebbe la medaglia di bronzo al V.M. dal Comandante la III Armata, con motivazione: In testa al suo plotone, irrompeva nelle linee nemiche, dando mirabile esempio di ardimento e di coraggio. (Cavazuccherina, 13 giugno 1918)
Iniziò così uno dei vittoriosi gesti che si conclusero il 5 luglio segnando la riconquista del Piave, salvando Venezia dal rischio dell’assalto austriaco.
Dalla lettera del tenente Trevisani al Cappellano del reggimento Padre Amilcare Merlo: ‹‹ Alle ore 9 del 5 luglio fu colpito a morte. Con sforzi sovrumani s’attaccò disperatamente a quell’argine conquistato col suo valore e bagnato del suo sangue… ››
Il giovane maestro sottotenente Giuseppe Marcelli sarà decorato della medaglia d’argento al valor militare alla memoria il 16 novembre 1919.
VIA FABIO FILZI
È il nome moderno dato, in occasione dell’ultima guerra, alla Via dell’Arco di S. Clemente, cosi chiamata perché conduceva alla Cattedrale. Questa strada era denominata in antico, e fino al 1600, “Via dell’Arco dei Legni”(1) e ciò perché essa passava sotto l’arco del palazzo di detta famiglia Veliterna, ma di origine romana, palazzo che fu poscia dei Zafferani, dei Gagliardi, dei Borgia, dei Ceracchi, ed ora dei Remiddi.
Questa strada essendo di origine romana e come tale pavimentata con le consuete grandi lastre di silice, il popolo la chiamava “via delle pietre liscie”, e tale nome lo serbava ancora nel 1840(2), come lontana memoria, finché prevalse quello di S. Clemente, sostituito ora con l’appellativo che porta. Cosi pure crediamo non esser lungi dal vero, supponendo che l’arco suddetto sia anche esso di origine romana, avanzo, forse, di qualche pubblico monumento, poiché la costruzione e l’ubicazione del medesimo ce lo lasciano supporre.
Augusto Tersenghi - 1930
Nell’ultima sistemazione della strada (2002) sono ricomparse 3 di queste grandi pietre, ed ora si possono “calpestare” all’inizio di Piazza Mazzini.
(1) Jacomo Lauro: 1° cap.
(2) Biblioteca comunale: introito Toruzzi Negroni, pag. 4 |
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