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San Geraldo
Protettore di Velletri dalla mira micidiale
Non so quanti ragazzini sappiano più cosa voglia dire prendere la mira.Prendere la mira con la fionda, ma anche con un sasso nella mano nuda. Già, la mano. Quella dei nostri ragazzi si sta trasformando rapidamente, adattandosi alle funzioni del cellulare o del palmare. La rapidità sorprendente di certi giovanissimi, le cui dita volteggiano sulla tastiera come farfalle, nel comporre messaggini che nessuno stamperà mai con l’inchiostro sulla carta e che, una volta letti, verranno prima o poi cancellati. Ma il concetto di partenza è la mira, perché un Santo Protettore di Velletri, il vescovo Geraldo, da Lassù, ne ha avuta di micidiale, contro i nemici dei velletrani. La sua specialità erano pallottole di piombo a forma di ghianda, sparate a grandine sui malcapitati di turno. Non guardava in faccia a nessuno, quando i suoi protetti si sentivano minacciati e lo pregavano di aiutarli, impegnandosi collettivamente con digiuni e voti solenni. Geraldo era stato assunto addirittura come Patrono Comunale nel Medioevo, e rimase tale fino, più o meno, al 1870, anno in cui ci fu la Presa di Porta Pia e lo Stato Pontificio venne definitivamente assoggettato all’Italia di allora. Lo stemma marmoreo del Comune di Velletri è ancora murato lassù, sull’arco d’ingresso della cappella seicentesca di San Geraldo in cattedrale, ma le cose sono decisamente cambiate da quasi un secolo e mezzo. San Geraldo è ormai un ricordo, per giunta confuso. Né più né meno di una delle tante usanze cadute in disuso con il mutare dei tempi. Don Angelo Lopes, nel lontano 1991, tentò valorosamente di reintrodurre la Festa di San Geraldo. Un tentativo rimasto tale. Ma chi era, questo Santo dimenticato? Di certezze, su di lui, quasi nessuna. Sarebbe stato vescovo di Velletri dal 1072 al 1077 e avrebbe studiato a Cluny, probabilmente insieme a quell’Ildebrando di Soana che, nel 1073 verrà eletto papa con il nome di Gregorio VII. Geraldo fu ambasciatore del papa nella penisola italica ed in mezza Europa. Fu uno dei presenti a Canossa ed uno dei più attivi organizzatori dell’evento, quando Gregorio VII sembrò aver riportato all’ovile il recalcitrante Enrico IV. Geraldo avrebbe pagato con la vita la sua fedeltà al papa, morendo a Roma nel 1077 per le ferite riportate per mano dei soldati di Enrico IV. Il vescovo sarebbe stato sepolto nella cattedrale di Velletri, e avrebbe iniziato presto a dispensare miracoli. Fu proclamato Santo a furor di popolo, senza l’avvio di alcun processo di beatificazione e canonizzazione. Un Santo… abusivo, per capirci. Per il quale non ci si è mai posto il problema di presentare regolare domanda di sanatoria. Ai velletrani era sufficiente la Sua protezione. Punto. E che, con la sua mira micidiale, Geraldo non sbagliasse un colpo.
Uno dei fautori dello storico incontro di Canossa
Nel suo “Liber ad Amicum”, cronaca molto dettagliata del celebre incontro di Canossa tra papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV, il canonista, storico e vescovo Bonizone da Sutri (Cremona 1045 – Piacenza 1091) riporta il nome di “Geraldo (vescovo) di Ostia” tra i presenti all’avvenimento. Bonizone non aggiunge altro, ma la presenza del futuro San Geraldo getta una nuova luce sulla sua personalità. Le sue origini germaniche – e quindi la sua padronanza linguistica – ed il suo retaggio culturale furono una base ideale per il suo credo riformatore iniziato e maturato a Cluny; a ciò si aggiunga la sua profonda conoscenza della realtà politico-religiosa della penisola italica di allora. Secondo alcune fonti, sarebbe stato Geraldo in persona a fungere da intermediario (interprete?) tra papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV. “Andare a Canossa” è una frase proverbiale, che indica la pratica dell’umiliazione e della penitenza finalizzata ad ottenere il perdono. Nel castello della contessa Matilde di Canossa, infatti, il 28 gennaio 1077 papa Gregorio VII ammise alla sua presenza l’imperatore Enrico IV: il sovrano germanico aveva dovuto però penare in un’interminabile attesa, durata tre giorni e tre notti, fuori del portale d’ingresso del maniero, con l’aggravante di una bufera di neve. Antefatto di tale celebre episodio, durante un lungo ed estenuante braccio di ferro tra impero e papato, il sinodo di Worms del 24 gennaio 1076, quando Enrico IV dichiarò deposto Gregorio VII e chiese ai romani di eleggere un nuovo Papa. Gregorio reagì scomunicando Enrico in data 22 febbraio 1076, esentando i sudditi dal giuramento di fedeltà al monarca e annullando la sacralità dell’ex “Sacro Romano Impero”. Un duro colpo, questo, per Enrico IV e la sua concezione imperiale, ribadito dall’umiliazione di Canossa e dal quale papa Gregorio VII vide, almeno temporaneamente, rafforzato il suo carisma. Nel 1080 il papa scomunicò di nuovo Enrico IV, riconoscendo come sovrano legittimo re Rodolfo; Enrico reagì convocando un sinodo di vescovi germanici a Bressanone, deponendo papa Gregorio e sostituendolo con l’antipapa Guiberto, arcivescovo di Ravenna, che prese il nome di Clemente III. Furono necessari i normanni del temibile Roberto il Guiscardo per consentire ad un assediato Gregorio VII di lasciare una Roma in balia di furiose rivolte popolari; il papa si rifugiò prima a Montecassino e poi a Salerno, ove morì da esiliato il 25 maggio 1085. Sia Geraldo che Bonizone, convinti assertori dell’autorità papale durante la cosiddetta “lotta per le investiture”, testimoniarono la loro fedeltà a Gregorio VII pagandola con la vita. Geraldo, infatti, venne imprigionato nel corso del 1076 da soldati di Enrico IV e morirà a Roma nel dicembre di quell’anno, provato da quella prigionia. Bonizone, già vescovo di Sutri e trasferito nel 1086 a capo della diocesi di Piacenza, vi morì nel 1091 a causa delle gravi ferite causate da sassate durante una rivolta popolare. Il suo programma pastorale, basato sul pauperistico movimento della “pataria” (movimento milanese nato dalla reazione del clero di base e dei ceti più umili contro la simonia e la ricchezza delle alte cariche ecclesiastiche) doveva essere così innovativo e quindi scomodo da condannarlo a morte.
Il San Giràllo anomalo del poeta Luigi Capretti
È probabilmente l’ultima volta, finora, che la figura di San Geraldo ha ispirato un poeta, nel nostro caso il velletranissimo Luigi Capretti (1935-1997). La poesia “Supprica a li Quattro Santi Patroni”, vera e propria invettiva contro gli amministratori locali, è un’invocazione ai quattro Santi che, da secoli, sono i principali Protettori dei velletrani. La composizione del grande Capretti, intensa e ironica, inizia proprio con l’immagine tradizionale, forte e battagliera di un San Giràllo – così veniva chiamato affettuosamente dai velletrani, come uno di famiglia – che però si comporta in un modo così anomalo da essere irriconoscibile. Infatti, invece di dispensare grandine di piombo sugli amministratori locali fino allo sterminio totale, giace impigrito nel calduccio della sua urna e non dispensa neanche una pioggerellina su sindico, assessori e consiglieri.
Una richiesta ai nostri concittadini: oltre San Clemente, chi conoscesse i nomi degli altri Protettori alzi la mano.
Supprica a li Quattro Santi Patroni
di Luigi Capretti
Co’ ‘a gragnine de piommo San Girallo,
a Corte tenerìa da fa’ u’ mmacello;
‘nvece sta drento all’urna bello callo,
e nu’ glie fa aroprì manco lo ‘mbrello.
Si Sant’Elevuterio e San Ponziano,
appena ce mettesseno le mano:
sindico, assessori e consiglieri,
‘n arazzerinno co’ i probbremi seri.
Èsso come la pensa ‘a pora gente,
che annanzi a tante recce da mercante,
s’ ‘a piglia co’ ‘o gran capo San Cremente,
e lo fa co’ ‘na supprica pressante:
Tené quattro patroni atro ‘n ce rende,
che avé ‘na chiesa pìna d’ossa sante;
visto che cqua ‘o digrado ‘n sarva gnente,
fermételo, o v’ ‘e tarla tutte quante.
La poesia è a pagina 101 del volume postumo: Luigi Capretti, Velletri arecconta: il luogo e lo spirito del luogo, Velletri 1997. Questa preziosa raccolta non dovrebbe mancare nella biblioteca di ciascun buon velletrano che si rispetti. Soprattutto, il contenuto andrebbe proposto a figli, nipoti e via discendendo; sforzandosi di leggere – e far leggere - con l’esatta pronuncia.
La Madonna di Costantinopoli e il Bambino con i Santi Protettori di Velletri, Geraldo, Ponziano, Clemente ed Eleuterio (senso orario), Velletri Museo Diocesano, olio su tela del 1840 di Domenico Tojetti (1807-1892).
L’anonimo Santo nel cassetto di Aurelio Picca
Prima del compianto Luigi Capretti, è stato l’ormai celebre scrittore Aurelio Picca ad inserire un “cammeo” di San Geraldo nel racconto “Le suore della neve”, del 1987, pubblicato nella raccolta La Schiuma nel 1992 dall’editore Gremese. Picca rielabora sapientemente uno dei molteplici ricordi indelebili, nella memoria di quelli della sua generazione: il curioso modo di conservare i resti del Santo, dopo i danni dei bombardamenti e lo stato di semiabbandono della sua cappella seicentesca in cattedrale. Quel curioso pupazzo di stoffa, contenente le ossa di San Geraldo, bollate a ceralacca per attestarne l’autenticità con lo stemma del cardinale Alderano Cybo, è rimasto per decenni in uno dei cassetti della sagrestia della cattedrale. Picca non lo nomina mai, poiché è un dato superfluo per la narrazione, e lo colloca addirittura nella sagrestia della chiesa di Sant’Apollonia. Ma invitiamo alla lettura integrale dell’opera di Aurelio Picca, altrimenti se ne perderebbe il sapore autentico. Con un’osservazione finale: lo scrittore, nelle sue immagini letterarie, ha attinto a piene mani dalle nostre credenze popolari, trasformandole e adattandole alle sue ispirazioni, per consegnarle alla Letteratura Italiana. Lo vedo già, che mi fa con la mano a scure ed il sorriso sotto i baffi “Te pòssino!”.
San GeraLdo, non GeraRdo!
Il romanesco non si addice ai velletrani neanche un po’. Produce un effetto buffo, simile a quello del barese che si arrischia a parlare il milanese. Geraldo trasformato in Gerardo, con conseguente ringhio pseudocapitolino, non va proprio. Soprattutto quando lo vedi scritto, da anni, su un cartello che contraddistingue una squadra di Portatori della Madonna delle Grazie. Sarebbe ora di correggere la scritta. GeraLdo, non GeraRdo. Nessuno se la prenda a male, ma il nome corretto è proprio quello: GeraLdo! Un Santo forse troppo lontano da noi, lasciato per così tanto tempo nel dimenticatoio da comprometterne addirittura l’esatta pronuncia del nome. Un sintomo eloquente di quanto ne sia passata, di acqua sotto i ponti, dai tempi in cui San Geraldo era sinonimo di mira micidiale. Contro tutti quei nemici, uomini in carne ed ossa o pestilenze, che si azzardavano a mettere in pericolo i velletrani.
Luca Leoni
Pala d'altare della Cappella di San Geraldo nella Cattedrale
di San Clemente in Velletri di Ippolito Zapponi (VEDI)
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