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1744 - LA BATTAGLIA DI VELLETRI


CORRISPONDENZA DI BENEDETTO XIV AL CARDINAL GUÈRIN DE TENCIN
- contributo per gli atti del convegno tenuto a
Velletri nel 1994 per il 250° della battaglia -


Pierre Guérin de Tencin, arcivescovo di Lione e Card. di Santa Romana Chiesa, fu sempre considerato da Prospero Lambertini, eletto papa nell’autunno 1740 col nome di Benedetto XIV, come un amico e, sopratutto, come l’artefice della propria elevazione alla tiara.
Il fatto che il Cardinale fosse anche ben introdotto alla corte di Versailles rendeva ancora più utile il mantenimento di stretti contatti fra i due. Il Papa ne ricavava un peroratore delle numerose richieste d’appoggio internazionale che avanzava spessissimo al Re di Francia, specialmente per le questioni relative ai Cristiani residenti in Medio Oriente e negli altri territori sottomessi al dominio turco. Il Cardinale, assecondandolo, diventava il tramite ufficioso e più efficace tra Roma e Versailles e accresceva la propria importanza e potenza tanto agli occhi di Luigi XV quanto a quelli dello stesso Pontefice.
Comunque, al di là di queste considerazioni utilitaristiche, Benedetto XIV ebbe sempre un grande affetto per il Cardinale e lo tenne costantemente aggiornato su ogni faccenda, più o meno rilevante, che accadesse nella Chiesa, nella Curia e nello Stato Pontificio, divenendo così una fonte d’informazione migliore e più attendibile dei dispacci dell’ambasciatore di Francia a Roma.

 

 
 

"Pierre-Paul Guérin de Tencin"
cardinale di Santa Romana Chiesa
(Grenoble 1680 – †Lione 1758)
Il Cardinale de Tencin fu il colto porporato francese col quale
Benedetto XIV ebbe una proficua corrispondenza epistolare.

 

La loro mutua corrispondenza incominciò a viaggiare nell’autunno del 1740, subito dopo il rientro del Cardinale in Francia, e continuò praticamente fino alla morte di Benedetto XIV. L’ultima lettera è infatti del novembre 1756, quando il Pontefice era tanto gravemente ammalato da poter a malapena dettare poche righe.
La maggior parte degli argomenti trattati nelle missive sono di carattere ecclesiastico-politico e solo raramente si fa riferimento ad avvenimenti militari.
Le operazioni austriache ed ispano-napoletane svoltesi durante la guerra di successione austriaca sul territorio della Santa Sede e culminate nella battaglia di Velletri, ebbero ovviamente una notevole ripercussione nella corrispondenza papale.
La prima lettera in cui si dia un esteso ragguaglio della situazione è quella del 25 marzo 1744, in cui fra le altre cose si legge:

“L’armata spagnuola d’Italia è già in Regno (di Napoli), e vi è andata per la strada del Tronto. Gli Austriaci l’hanno inseguita, ma non l’hanno raggiunta. La partenza di Gages da Pesaro è stata fatta su l’aria di fuga, ma il viaggio è stato su l’aria d’un bravo comandante che si ritira. Gli Austriaci sono nello stato della Chiesa, essendo a Fermo. Volendo operare in Regno dovranno passare il Tronto, ed i ponti che sono sul detto fiume sono stati abbruciati dai Spagnuoli, il che poi porta seco che volendoli rifabbricare sarà d’uopo il farlo in faccia loro, e così col loro contrasto. Chi fa pronostico di questa nuova impresa del regno di Napoli la riduce a vedere se siavi intelligenza, ed abbino in esso gli Austriaci partito di vaglia, supponendosi per certo , che le persone ordinarie siano tutte per loro. Se dovessimo ancor Noi dare il nostro voto in questo pronostico, diressimo esser anche necessario il vedere cosa sia la truppa del Regno, e de’ soldati regnicoli, essendo la truppa spagnola di molto valore e per terra e per mare, ma essendo poca di numero, e potendo esser anche rispettabile per il numero, la truppa degli Austriaci.”
Il 1° aprile il Papa comunica che:
“...abbiamo gli Austriaci fermati nel nostro Stato, ed individualmente nel porto di Fermo, dicendosi aver il principe di Lobkowitz spedito a Vienna per sapere se debba entrare nel Regno di Napoli, ove già quel Re si trova in campagna, ed in grado da difendersi....”
Una settimana più tardi:
“Colle ultime lettere abbiamo esser gli Austriaci partiti dal Tronto, per esser venuti a Macerata e luoghi vicini, avendo forse creduto più difficile l’ingresso nel regno di Napoli da quella parte che da questa. E chi sa poi se saranno in grado d’entrare in Regno per questa parte nemmeno, il che porta un solenne accantonamento di truppe estere, anche in questa parte dello Stato Pontificio.”
Questioni ecclesiastiche distraggono il Papa per un mese dagli avvenimenti militari. Solo il 6 maggio, dopo aver accennato alla presenza di reparti di ussari asburgici nell’Agro romano, scrive:
“Tutte le apparenze sono per un imminente ingresso delle truppe austriache nel Regno di Napoli.”
L’armata austriaca avanza e la sua presenza blocca o rallenta ogni attività. La situazione peggiora rapidamente, tantoché, una settimana dopo, troviamo scritto:
“Siamo qui senza lettere, ed è interrotto il commercio, non capitando più lettere di Spagna, né di Francia, per il timore, per quanto dicesi, che i corrieri siano arrestati dagli austriaci che battono queste contrade, volendo passare all’impresa di Napoli; per lo che v’è luogo a temere, che nemmeno siano partite le lettere nostre dello spazio passato.”
Poi Lobkowitz, ricevuti ordini da Vienna, si mette in moto verso sud.
“Roma 20 maggio 1744 ....Il principe di Lobkowitz si è incamminato verso la meditata impresa di Napoli, ed è già a Monte Rotondo con buona parte della sua armata, e quanto prima arriverà il restante della medesima. I Spagnuoli e Napoletani mostrano di non volerla ricevere dentro il Regno, essendo già entrati nello Stato ecclesiastico; ed ecco la guerra guerreggiata in questi nostri poveri paesi, ecco la rovina, e quando anche dopo qualche tempo i Spagnuoli retrocedessero verso il Regno senza aver data, né ricevuta battaglia, come pare che possa succedere, tanto basta per aver posta questa parte dello Stato della Chiesa nella dura necessità d’esser esposta alle tirannie militari, ed al somministrare la sussistenza a due armate.
La mossa poi improvvisa de’ Spagnuoli ha posto in tal agitazione gli Austriaci, una parte de’ quali era già arrivata a Monte Rotondo, e le altre due erano per la strada, che temendo che i Spagnuoli non fossero per prendere in mezzo la prima, hanno tagliato Ponte Molle, cioè quella parte di legno del ponte che s’incontra da chi viene a Roma, ed ivi per guardia hanno posto un picchetto d’ussari. Se ciò ci sia dispiaciuto, e ce ne siamo ritrovati mal contenti, non vi vorrà molto per persuaderlo.”

La situazione militare si calma. Gli Spagnoli ripiegano per avvertire il grosso, dove si trova Carlo III, che il nemico è già a Monterotondo. Gli Austriaci, resisi conto d’essersi imbattuti solo in un’avanguardia e che la maggior parte dell’esercito avversario è ancora lontana, riescono ad impossessarsi della linea del Tevere e puntano verso sud. La mossa costringe il Re a fermarsi a Velletri, per bloccare la strada corriera di Napoli, dando il via a una serie di atti tattici che termineranno solo a novembre colla rinuncia austriaca all’invasione del Sud.

 

 
 

"Papa Benedetto XIV"
(Prospero Lorenzo Lambertini, Bologna 1675 – †Roma 1758)
dal pennello di Pierre Subleyras

 

Il 27 maggio Benedetto XIV comunica che:
“Non vogliamo esentarci dallo scrivere, ancorché non abbiamo positiva occasione di farlo, quando non volessimo esporle i guai, ne’ quali pur troppo ci ritroviamo, avendo nello stato, e non molto lontane da Roma le due armate, cioè quella degli Austriaci sotto la condotta del principe di Lobkowitz nelle pianure di Monte Rotondo, l’altra de’ Napoletani, alla testa della quale è il re di Napoli, in Valmontone ed in quelle parti. Se siano per battersi, non lo possiamo sapere, e molto meno come battendosi sia per finire la battaglia. Il re di Napoli con sua lettera dei 20 di maggio scritta da Veroli ci ha data parte del suo ingresso nello Stato della Chiesa, e della necessità che ha avuto di farlo. Il principe di Lobkowitz con una grandissima quantità d’officiali venne a Roma domenica mattina, fu a pranzo in casa Albani dal card. Alessandro, ed il dopo pranzo venne da noi con tutta la sua comitiva. Non si può ella figurare le angustie nelle quali siamo, volendosi da ambidue le armate quei generi che non vi sono, e specialmente la biada, che positivamente non v’è.
Altro non resterebbe per compimento de’ flagelli, se non che si mandassero i cavalli a pascere ne’ campi, ove è nato il grano, perché da ciò avressimo senza dubbio una funesta carestia. Come può ella ben figurarsi, si mutano ogni momento le nuove, ricevendo in questo punto la notizia da mons. governatore di Frosinone, che il re di Napoli era nel giorno 25 a Valmontone. Si ha pure ancora certezza che l’armata austriaca non è più a Monte Rotondo, essendone partita dopo intese le mosse del re di Napoli, ed essendo andata a Lunghezza, che è un casale del duca Strozzi, intorno al quale è una gran pianura.”

Il 3 giugno il Pontefice è in grado di scrivere notizie più precise e, dopo essersi soffermato su varie questioni di curia, comincia a illustrare un triste scenario di danni e devastazioni.
“Nella parte più remota, prima d’Anagni ed oltre di Velletri, ove ritovasi l’armata napoletana spagnuola, la soldatesca ha fatto danni indicibili, facendo devastazione di vigne, tagliamenti d’alberi, e volendo dal paese quello che non v’è essendovi giunte all’improvviso più di trentamila persone senza aver che mangiare. Nelle parti poi più vicine, et signanter in Marino, ove è il principe di Lobkowitz colla sua armata, è una pietà il sentire quanto in quel luogo si è fatto e si va facendo.
Vantano i Spagnuoli, che se devastano pagano: ma ciò non è vero, si perché promettono semplicemente di pagare, si perché, quand’anche, pagassero quello che prometono, non pagano il quinto di ciò che levano e del danno che fanno. Rispetto poi agli Austriaci, col pretesto che la truppa non si può trattenere, si fa mano bassa; si è massacrata la terra di Marino con esser entrati i soldati nelle case, essersi ubriacati, ed aver fatto correre per le cantine il restante del vino, aver levati i denari a taluno, ad altri le poche suppelletili di casa, ed al contestabile che è il padrone del luogo, e nel di cui palazzo alloggiava il principe di Lobkowitz, si sono portati via venti para di bovi.
Colle notizie che in questo punto abbiamo, si può dire che il grosso sia sloggiato da Marino, essendo restate solamente dugento persone nel pascolare di Castel Gandolfo, che essendo senza officiali faranno ciò che insino ad ora non hanno fatto in quel luogo. Si pensa che l’armata dividasi in tre battaglioni, e che in questo modo s’incammini a Velletri per ivi battersi coi Spagnuoli. Qualche scaramuccia fra i micheletti e gli usseri è seguita nelle vicinanze di Marino, ma con poco danno dell’una e dell’altra parte.”

Passano due settimane e, il 17 giugno, la situazione risulta sempre statica.
“....Sono già a quest’ora più settimane che l’armata spagnuola sta in Velletri e sue vicinanze e che l’armata austriaca è tanto contigua all’altra, che le sentinelle dell’una parlano e trattano colle sentinelle dell’altra. L’armata spagnuola patisce molte diserzioni, l’armata austriaca non ne patisce tante, ma la mortalità per malattie è assai più dell’ordinario. Ogni giorno si va dicendo che il principe di Lobkowitz è per fare una mossa, ma a buon conto insino ad ora nulla si è fatto, ed il nostro povero Stato è in rovina.
Il card. Aldrovandi ci ha mandato il dettaglio del debito contratto dalla sola provincia della Romagna per la permanenza ora d’una, ora dell’altra armata, ed ora di tutte due, e prescindendo dai danni de’ particolari, che pur troppo sono stati grandi ed eccessivi, il debito contratto dalle comunità arriva a seicentomila scudi romani.

 

 
 

"Pompeo Aldrovandi"
cardinale di Santa Romana Chiesa
(Bologna 1668 – †Montefiascone 1752)

 

Altrettanto senza dubbio sarà quello contratto dalla città di Bologna. Nulla sappiamo di Ferrara, nulla della Marca ed Umbria, ed ora la campagna romana è sotto la mannaja, e solo sappiamo che in 28 giorni abbiamo speso ventinovemila scudi, né quali non entrano i danni patiti dai particolari baroni possidenti. Ora che possa piacere a Dio, e che possa piacere agli uomini onorati questa maniera di far le guerre a spese d’altri, colla rovina de’ paesi neutrali e de’ paesi della Santa Sede, non ne resteremo mai persuasi.”
Il 24 poche novità. La corrispondenza è assorbita quasi completamente da affari ecclesiastici, questioni di precedenza e di forma, e la guerra, le cui operazioni stagnano, viene liquidata in poche righe di chiusura:
“Siamo sempre ne’ nostri intollerabili guai vicino a Roma. Sieguono fra i due eserciti scaramuccie, occupazioni di piccoli posti che nulla concludono. Negli Austriaci le malattie sono moltissime e gravissime, e ne’ Spagnuoli le deserzioni. come debba finire la cosa, solo Iddio lo sa, al quale ci raccomandiamo con tutto il cuore.”
Alle preoccupazioni della guerra si accavallano le questioni di protocollo e quelle politiche. Roma è neutrale e in essa i due partiti contrapposti si combattono sul terreno della propaganda con atti più o meno forti o minacciosi. Arriva il giorno della Chinea, l’omaggio della mula bianca che tradizionalmente i re di Napoli presentavano ai Papi in segno di vassallaggio e la cui accettazione da parte pontificia implicava il riconoscimento della validità della sovranità su Napoli:
“Nella vigilia di S. Pietro, secondo il solito, abbiamo ricevuto la Chinea presentataci dal conestabile Colonna in nome del Re di Napoli. Tutti i feudatari hanno cavalcato, e non vi è stata dispensa per veruno. Ancorché gli Austriaci siano ancora nella Fajola, selva poco distante da Albano, mons. di Thun ha con biglietto intimata la confiscazione de’ feudi, e la disgrazia della regina d’Ungheria ai feudatari d’Abruzzo che avessero cavalcato: ma tutti hanno cavalcato col biglietto in saccoccia.”
Coll’avanzare dell’estate aumenta la pressione austriaca sullo Stato Romano. Gli ussari battono tutte le strade e bloccano i messaggeri che le percorrono. Così la lettera che il Papa scrive il 7 luglio cade nelle loro mani e viene poi inviata a Vienna, nei cui archivi ancora si trova. Vi si legge:
“Roma, 7 luglio 1744. Non è per anche comparso il corriere di Francia e Noi per non perdere tempo incominciamo a dettare, con animo d’aggiungere se le lettere arriveranno prima che si chiuda la presente.
Continuano pur troppo i guai di questo infelicissimo Stato, essendo l’una e l’altra armata in una positiva inazione. Stanno i Spagnuoli fortificati in Velletri, persistono nel possesso del monte occupato; i tentativi praticati dagli Austriaci per la parte dell’Abruzzo sono svaniti, essendo ritornato il conte di Soro ferito ad Ascoli e non hanno servito ad altro, che a far carcerare e sottoporre a grave inquisizione quei sventurati dell’Aquila, che o per genio o per aver troppo presto creduto e così troppo presto temuto, hanno prima del tempo acclamata la regina d’Ungheria. Un corpo austriaco comandato dal conte Gorani è passato ad Arsoli, feudo della casa Massimo, nelle vicinanze del Regno per la parte di Tivoli ed ivi si è fortificato: ma essendosi fatto uno staccamento di quattromila persone dal campo spagnuolo, se ne sta attendendo l’esito.
“A questi disastri su le porte di Roma succedono gli altri dentro la stessa città. Non ostante tutte le proibizioni, tutte le promesse e tutti i giuramenti dati, pur troppo si fa ammasso de’ disertori per riguadagnarli e rimandarli col perdono alle loro truppe. Ciò si fa dagli Austriaci fuori della porta del Popolo in una vigna del granduca goduta dal principe di Santa Croce. Ed i Spagnuoli fanno questa funzione dentro Roma. Sessanta dei loro usciti da porta S. Paolo erano incamminati al campo: ma poco prima di giungere alla basilica, essendo stati incontrati da una truppa d’usseri, sono stati maltrattati e dispersi.”
La settimana successiva il Santo Padre comunica:
“non abbiamo alcuna novità, se non che si va vociferando esserci moto nell’armata austriaca, e che Iddio pur facesse che in qualche maniera ambidue le armate partissero da questo povero Stato.”
Riferendosi alla precedente missiva, aggiunge:
“ .....Avendo voluto mons. di Canilliac mandare per uomo a posta le lettere dello spazio passato a Civitavecchia, intendiamo esser capitate le lettere nelle mani degli usseri, il che forse cagionerà che la nostra scrittura non le arrivi.”
Diciotto luglio:
“Noi qui nulla abbiamo di nuovo, eccettuata la continuazione de’ nostri intollerabili guai. Erasi detto che il principe di Lobkowitz fosse per muoversi dal luogo ove è, o fosse almeno per fare un grosso staccamento verso Tivoli, ad effetto di far penetrare per quella parte qualche sua riguardevole truppa nel Regno, e già ven’erano molti contrassegni. Oggi però tutto resta sospeso e forse per vedere l’effetto che faranno le navi inglesi che s’incamminano verso Napoli. Avendosi nuova da Civitavecchia vedersi di lì sei navi inglesi con tre palandre. Non hanno gente da sbarco; contro le bombe si suppone che per gli accidenti passati siansi prese in Napoli le dovute precauzioni. Nella spiaggia però potranno fare del male; ed il punto consisterebbe se in Napoli vi fosse qualche intelligenza.”
La settimana dopo, il Papa è nuovamente privo di posta, sempre per colpa delle pattuglie austriache.
“Roma, 25 luglio 1744. Una volta le lettere che andavano da Roma in Francia sono state attrappate dagli usseri, e ne’ giorni passati le lettere che venivano da Francia a Roma hanno corsa la medesima sorte. Ambidue i fatti son seguiti fra Civitavecchia e Roma. Non ha mons. di Canilliac gran felicità né suoi stratagemmi. Le lettere di Francia che venivano a Roma furono per di lui raggiro consegnate al corriere che porta le solite lettere a Roma. Una spia di Civitavecchia ne ha avvisati gli usseri, e questi hanno lasciato al postiglione le altre lettere e gli hanno levato il fagotto delle lettere di Francia, e queste dopo aver servito di divertimento ai ministri di Roma anderanno alle loro Corti, che non lascieranno di formarvi sopra cabale e malignità. Ecco la pura verità del fatto che senza altro soggiugnere esponiamo a lei in questa lettera.”
Agosto porta un ulteriore rallentamento delle operazioni. In realtà Lobkowitz sta preparando l’attacco di sorpresa che dovrebbe dargli Velletri e aprirgli la via per Napoli ed ha quindi bisogno di lasciar tranquillo il nemico. Passano così due settimane, durante le quali l’unico accenno che si ha alle vicende militari è contenuto nella lettera dell’8 agosto:
“noi siamo nelle solite angustie, la maggiore delle quali si è, che vedendo con gli occhi nostri andare in malora lo Stato più vicino alla capitale, somministrandosi quanto ha di bisogno l’armata austriaca, che senza tale somministrazione sarebbe già perita, e facendosi il tutto con prontezza, et habita fide de pretio, si ha il coraggio di dire non prendersi Napoli perché qui non si vuole che si prenda, e non aver la regina d’Ungheria maggior inimico di questa Corte. Orate pro odentibus, et persequentibus vos.”
Intanto Lobkowitz ha approvato il piano del generale Brown per l’attacco a Velletri ed inizia la manovra col gettare fumo negli occhi, facendo credere che un distaccamento andrà a imbarcarsi a Fiumicino per raggiungere Napoli via mare.
“Roma, 15 agosto 1744 ...Continuano ancora i nostri guai e le nostre intollerabili amarezze per la persistenza di queste armate spagnuola ed austriaca né luoghi né quali erano; pensa questa seconda di fare uno staccamento per mare di quattromila persone incirca. Dicesi che il generale Browne, che passa per il più prudente e valoroso officiale, sia per comandarlo, il che fa congetturare esservi buona speranza d’esito felice, il che però non è figurabile quando nel Regno non vi sia corrispondenza insino ad ora incognita. noi preghiamo continuamente Iddio che conceda la pace e ci liberi dal duro flagello che ci affligge. Il tenue allegerimento delle poche truppe che vanno ad imbarcarsi a poco o nulla ci serve, anzi ci da quel danno che ci può dare. La nostra Camera è in credito dell’armata austriaca insino ad ora di centomila scudi in circa per farina e pane somministrato. Era stato promesso di dare ora a conto quattromila zecchini, ma ora si dice non potersi ciò effettuare per esser stata obbligata la parte austriaca di somministrare tutto agl’Inglesi, le navi de’ quali devono andare fiancheggiando lo staccamento che va per mare.”
Gli Austriaci attaccano e la loro “Incamiciata” fallisce per un soffio. La notizia giunge a Roma e il Papa la fa rimbalzare in Francia con una seconda lettera scritta lo stesso giorno:
“Dopo scritta e sigillata l’altra lettera ne riceviamo due delle sue... Siamo stati vicini a veder rinovato l’esempio di Francesco I nella persona del re di Napoli in Velletri; mentre avendo gli Austriaci nello stesso tempo, in cui assalivano la montagna, mandato uno staccamento di quattromila persone per una strada longa e non preveduta dai Spagnuoli, riuscì al detto staccamento di cogliere mentre dormivano due reggimenti di Napolispani e di esterminarli, e poscia d’entrare in Velletri per la porta che va al regno di Napoli, di far mano bassa sopra quanti incontrarono, di svaligiare le case, ove erano i Spagnuoli, e fra le altre quella del duca di Modena; il che avendo cagionato ritardo all’esecuzione del disegno di sorprendere il re di Napoli che se ne dormiva placidamente nel suo letto, essendo il tutto seguito fra la notte e l’aurora, è stato la di lui salvezza.
Andava il generale Gages alla montagna ove era accesa la mischia ed avendo per la strada sentito il rumore che era in Velletri, nel ritornare a dietro incontrò il Re, che svegliatosi e vestitosi andava verso la montagna. Intanto le truppe vallone che erano in Velletri, ed un altro loro reggimento che accompagnava il Re, ritornato indietro, fecero gran fuoco, in tal maniera che gli Austriaci furono sforzati a partire da Velletri. In Velletri è stata maggiore la mortalità de’ Spagnuoli che degli Austriaci ed il danno de’ primi è grande, non meno per le morti, che per le prigionie, per la perdita delle robbe, abbruciamento delle tende, e de’ magazzini di Velletri e rovina della cavalleria. Nell’attacco poi della montagna è di gran lunga superiore il numero de’ morti austriaci a quello de’ spagnuoli, ed ora sono tutti ritornati ai loro posti antichi per disgrazia del povero Stato pontificio.”

Dopodiché gli Austriaci restano fermi. Passano due settimane e il Papa scrive:
“Non ostante il fatto di Velletri, le armate sono ove erano, e piuttosto si è ritirata l’austriaca per sottrarsi dal cannone dell’inimico. Si va vociferando che gli Austriaci col beneficio delle navi inglesi siano per fare uno staccamento per mare. Qui è preparato il biscotto. Ottocento fucili sono in magazzino fuori di Porta Portese, ma ognuno di loro ha bisogno di qualche cosa. Si è altresì fatta una gran provisione di lanterne, né si sa il perché. Intanto si lascia che gli usseri vadano a loro capriccio a foraggiare e fieno e biada, ancorché se gli dia puntualmente la convenuta quantità delle dette specie oltre la farina, senza aver avuto insino ad ora verun pagamento.”
L’estate si avvia alla fine. La guerra è ferma nel Lazio, ma prosegue in Piemonte, dove i Franco-Spagnoli assediano Cuneo. Carlo Emanuele III di Sardegna deve soccorrere la città e chiede agli Austriaci i rinforzi che sono tenuti a fornirgli secondo il trattato d’alleanza. Da Vienna si decide di mandargli truppe distaccandole dall’esercito di Lobkowitz; e i soldati partono per andare ad imbarcarsi a Fiumicino sulle navi inglesi:
“....comincieremo col darle notizia - scrive Benedetto XIV il 12 settembre - essersi imbarcato uno de’ reggimenti degli Austriaci, ed esser esso il reggimento Pallavicini, correndo la voce, che possa andare in soccorso del re di Sardegna, che non dovrebbe esser contento, si perché il soccorso è piccolo, si perché il soccorso non è di cavalleria, di cui quel Re dicesi aver gran bisogno.”
Il 19 settembre:
“...nulla di nuovo abbiamo se non la continua inazione delle due armate, ed il continuo esterminio di questo povero Stato.”
Gli eserciti sono fermi, ma mentre i Borbonici sanno che il tempo é dalla loro parte e che possono aspettare quanto vogliono, Lobkowitz si rende conto dell’indebolimento continuo che mina la sua armata e comincia a pensare seriamente alla ritirata, temendo di non riuscire a passare l’inverno in una zona tanto difficile da rifornire.
Qualcosa filtra, non molto, ma abbastanza da far scrivere al Pontefice il 26 settembre:

“Nulla di nuovo abbiamo, se non voci sparse che gli Austriaci siano per decampare dal luogo ove sono per andare in Lombardia. Segni prossimi di questa mossa non vi sono, come sarebbe quello dell’imbarco degli ammalati”.
Una settimana dopo le voci si sono fatte più insistenti:
“Si va discorrendo del ritiro degli Austriaci verso la Lombardia. Tutta Roma n’è piena, gli officiali medesimi ne parlano, ma insino ad ora non si viene all’esecuzione, e Iddio pur faccia che questa viziosa tardanza contro gli ordini espressi di Vienna non sia per produrre qualche pretensione di esborso di contante per la buona uscita. Il pensiere può esser falso, come desideriamo, ma certamente non è temerario, essendo purtroppo succeduto lo stesso quando queste medesime truppe partirono da Bologna, Ferrara e Romagna.”
Cominciano finalmente i movimenti preparatori della ritirata. Gli Austriaci mandano via i feriti e gli ammalati e iniziano a spostare i servizi e gli apparati logistici più ingombranti e lenti, facendoli prima convergere su Roma e poi proseguire per il Nord.
“Roma 10 ottobre1744 ....Il convento e la basilica di S. Paolo sono ripieni di ammalati austriaci, mandati ivi dal campo, per essere imbarcati, ma le barche non vengono. Il principe di Lobkowitz ogni giorno mostra di voler sloggiare, ma non sloggia, ed intanto il paese resta sottoposto alla desolazione.”
Due settimane più tardi ancora non è successo nulla:
“Noi siamo sempre ne’ guai, non essendo per anche partiti gli Austriaci da Genzano; sono però in procinto i loro ammalati d’esser portati dal monastero di S. Paolo, ove si ritrovano, a Civitavecchia, per ivi imbarcarsi. Partiranno, per quanto si dice, poco dopo le truppe, ne’ sappiamo se saranno inseguite dalle spagnuole. Se dal passato si può prendere argomento al futuro, si faranno una o due mosse, mostrando d’inseguirle.”
Il 31 ottobre l’armata austriaca decampa, pernotta a Tor Mezzavia e, proseguendo per l’Appia, la mattina del 1° novembre sfila lungo le mura di Roma, da porta San Giovanni a porta del Popolo, dove imbocca la Flaminia. Passa il Tevere a ponte Milvio e, lasciata una retroguardia a coprire la ritirata, si avvia poi verso Nord, inseguita non troppo celermente dall’esercito avversario.
Sempre il 1° gli Ispano-Napoletani appaiono sotto Roma. Mentre le truppe avanzano dietro gli Austriaci, Carlo III entra in città, riverisce il Papa, incontra i nobili suoi feudatari, l’alto clero che parteggia per lui e gli ambasciatori delle Nazioni alleate, visita la città e torna a Velletri per dormirvi.
Il Papa, indaffarato sia dalle funzioni per le feste di Ognissanti e dei Morti, sia dalle cerimonie e questioni connesse alla presenza del Re in città, tralascia la corrispondenza. La riprende solo il 7 novembre colla lettera che si può considerare l’ultima relativa alla “guerra di Velletri”, in cui descrive minutamente i fatti della giornata del 2.

“Roma 7 novembre 1744.
Gli Austriaci sono sloggiati da Genzano, ed i Spagnuoli da Velletri. Ambidue gli eserciti sono stati sotto le mura di Roma, essendo l’esercito spagnuolo sopraggiunto dopo due ore incirca all’arrivo dell’austriaco. Martedì notte partì l’esercito austriaco, e giovedì notte partì l’esercito spagnuolo in traccia dell’altro.
Sotto Roma per grazia di Dio non è seguito verun male, perché essendo arrivati gli Austriaci prima de’ Spagnuoli, hanno tagliato ponte Molle, e si sono guardati coll’ajuto del fiume di mezzo. I Spagnuoli poi si sono posti nelle vigne fra porta Pia e ponte Molle, e benché con picchetti avanzati procurassero di riaccomodare ponte Molle per passarvi sopra ed andare a ritrovare l’inimico, ciò non fu mai loro possibile, perché da una eminenza il cannone austriaco gl’incomodava malamente, facendosi conto che ne siano restati morti da cento incirca; partiti poi gli Austriaci hanno rifatto il ponte, e per esso si sono fatta la strada per inseguire l’inimico. Le mire degli Austriaci si sa che erano di prendere la strada della Toscana, né ai Spagnuoli sarebbe stato negato il transito: ma non sappiamo se questi ordini dati prima della notizia della liberazione di Cuneo siano per restare, o pure per esser variati dopo la detta liberazione, nel qual caso il colpo tirato alla testa colpirebbe nel petto, fermandosi gli Austriaci in Viterbo, ove avrebbero la loro sussistenza, e fermandosi i Spagnuoli in quelle vicinanze.
Gli Austriaci sono in numero minore, essendo in numero di diecimila in circa; cinquemila Napoletani sono stati rimandati in regno ed i Spagnuoli saranno in 18 mila uniti con altri pochi Napoletani, ed in questo numero sieguono l’inimico, non sapendosi però se abbino voglia d’attaccarlo, essendo cosa certa che se avessero solecitata la marcia da Velletri avrebbero raggiunti gli Austriaci a Torre di Mezza Via, prima che arrivassero a Roma.
Colle sue truppe arrivò all’improvviso il re di Napoli a porta Pia, smontò alla villa Patrizj non avendo mai il card. Troiano Acquaviva
(cardinale protettore delle Corone di Spagna e di Napoli in Roma) potuto assicurare la sua venuta. Mandò a dar parte a Noi del suo arrivo, dicendo che sarebbe stato la mattina seguente da Noi alle ore 14.

 

 
 

"Troiano Acquaviva d'Aragona"
cardinale di Santa Romana Chiesa
(Napoli 1696 – †Roma 1747)

 

Era la villa Patrizj senza letti e biancherie, avendo i padroni portato tutto in città per timore degli usseri. Colla providenza del card. Girolamo Colonna Pro Maggiordomo si providde al bisognevole, altrimenti Sua Maestà sarebbe stata tutta la notte senza lumi e la sua nobile corte senza letto.
Entrò il Re martedì mattina a cavallo con cinquecento officiali e cortigiani di seguito. Le nostre mute lo seguitavano e la nostra Guardia svizzera l’assisteva.
Entrò in Palazzo per la porta grande, smontò alla porta del giardino e Noi lo ricevemmo nel nostro nuovo casino fatto nel giardino. Stette con noi un’ora e mezza in circa, e ci lusinghiamo che sia partito contento di Noi. Vi fu un nobile rinfresco, e colle nostre mani regalammo a Sua Maestà una bella corona, ed un’altra per la Regina coi soliti brevi d’indulgenza.
Risalito a cavallo, e salutato nel partire col cannone del baluardo di Monte Cavallo, ritrovò nella piazza schieratala nostra Guardia delle corazze, proseguì il viaggio alla fontana di Trevi, indi a piazza Colonna, poscia a piazza Navona, avendo ritrovate in ambidue le piazze sotto l’armi le compagnie di nostri soldati; ed essendo andato per la strada papale a S. Pietro, nel passare da Castello fu salutato col cannone, e nella piazza di S. Pietro ritrovò squadronato un bel corpo di nostra in fanteria.
Entrato nella basilica fu benedetto colle reliquie del Volto Santo, Legno della Croce e Lancia, nella qual occasione diede contrassegni di soda pietà. Nel coro s’abboccò col re d’Inghilterra, ed uscito di chiesa entrò nel palazzo vaticano, vidde l’armaria e la libraria, ed avendo mostrato d’esser stanco ritrovò la tavola imbandita, e nello stesso tempo in una camera separata una tavola imbandita per cento persone con applauso veramente unive seguente a Napoli. Ecco quanto è succeduto, e la moralità che si può ricavare si è, che sua Maestà Napoletana ci ha in poche ore consumato quanto avevamo sparagnato in tre villeggiature di Castello
(Castelgandolfo) tralasciate, e quanto avressimo speso in tre altre susseguenti.”


 


Bibliografia
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