Alfredo Candidi

Alfredo Candidi nacque a Velletri nel 1876, e vi morì nel 1953. Commerciante di sementi e prodotti agricoli nel suo negozio al numero 276 di Corso Vittorio Emanuele, tra Piazza Metabo e San Martino, vantava origini contadine e un certo trasporto per l'agricoltura, come fece notare nella prefazione del suo volumetto pubblicato nel 1933 per la IV Festa dell'Uva. "... Curando anche l'allevamento degli animali - continua in quella prefazione - e così tra l'una e l'altra cosa trascorsi i miei anni lavorando tranquillo". Basterebbe solo questa sua frase per delineare lo spirito di un uomo, se egli stesso non avesse fatto di più coi suoi versi, esaltando e dando motivo ai valori di onestà e laboriosità, e mettendo in risalto la saggezza e l'arguzia del mondo contadino. Quell'agricoltura che si definisce "attività primaria" ormai come formulazione tecnica, senza porre mente alla sua importanza vitale, era intensamente e convintamente presente nei versi di Candidi, che si trovò a dover dare ragione a se stesso nell'opera "Carnevale e le sanzioni" del 1936, allorché l'Italia dovette fare di necessità virtù, per produrre quanto era indispensabile al fabbisogno nazionale. E a questo proposito, Candidi vedeva nell'autarchia non tanto l'occasione di dimostrare una superiorità nazionale, quanto l'opportunità di riscoprire quella sana frugalità, l'ingegno, la cultura del non-spreco, necessarie in ogni tempo alla crescita spirituale e intellettiva dell'uomo.

Anche nei confronti del governo Mussolini ebbe sentimenti in linea con questo suo carattere: proprio nei lavori poetici che compose in occasione della Festa dell'Uva, lodava il Duce per l'istituzione di essa, e per la politica agraria. Ma non mancò di rammaricarsi, nella prefazione del 1933 alla quale accennavamo, che il terreno dove egli aveva lavorato per tanti anni, a levante di Velletri, fosse stato ridotto per la costruzione di villini. L'aria di guerra che già si poteva respirare nel '36, con le sanzioni, lo addolorava: sempre in "Carnevale e le sanzioni" scrisse quattro quartine tragicamente profetiche:
"... si se metteno 'n funzione
tutte 'e vocche de cannone
... ... ...
struierìnno somarielli,
co' le pècora e celluzzi;
e 'nfinente i cardelluzzi
s'averìnno da seccà.".
La preoccupazione e la sensibilità del poeta si rivolgono agli animali e alle piante, vittime innocenti di quella catastrofe che, col secondo conflitto mondiale, non avrebbe lasciato spazio a dubbi, circa la legittimità del suo sentire.

Riconoscimenti e attestazioni di stima pervennero a Candidi da varie autorità dell'epoca, mentre pare non fosse dello stesso avviso qualche suo concittadino, a sentire i ricordi di chi lo conobbe. Infatti Candidi non si risparmiava qualche battuta autoironica nei confronti della propria attività letteraria, ma anche amare considerazioni verso coloro che guardavano ad essa con una certa sufficienza o dileggio. C'è da considerare che non tutti si trovano a svolgere il lavoro per il quale sono più portati, mentre Candidi ebbe la fortuna di trarre dal suo lavoro la piena realizzazione di sé. Lo stesso non si può pretendere da ogni contadino, per il quale ...la terra è troppo bassa, e al quale manchi quella sfera di motivazioni morali, sociali, economiche, che ad altri rendono meno duro il lavoro dei campi. Molti lo ricordano davanti il suo negozio, seduto sulla sedia di paglia, ad appuntare i suoi disinvolti versi. Talvolta amava sostare all'angolo tra il Corso e Piazza Metabo, in vista del negozio, e in vista della campagna e dei Monti Lepini. Lì, in equilibrio instabile, seduto sul bastone poggiato a tergo, traeva quasi spiriticamente consiglio dal panorama delle vigne.

Le Opere


" 'O muorto resuscitato" è la prima opera di Candidi: la pubblica alla matura età di 52 anni, nel 1928. Stampata dalla tipografia G. Zampetti, di 68 pagine, costa L. 3. L'anno successivo, in occasione del Carnevale 1929, compone un sonetto che stampa su volantino. Lo stesso fa nel '30, '31 e '32. Nel 1933 pubblica un libretto (Carnevale 1933-XI) nel quale, insieme al sonetto per il Carnevale in corso, ripropone quelli precedenti (Tipografia Fiumani, 32 pagine, centesimi 60). Intanto, per la Prima Festa dell'Uva tenuta il 28 settembre 1930, aveva stampato in volantino un sonetto. Un altro lo aveva fatto per la seconda festa il 27 settembre 1931, e per la terza il 9 ottobre 1932. Per la quarta festa dell'uva (8 ottobre 1933), come per il carnevale, stampa un libretto ("Pe' gl'uva" - Tip. Zampetti, pag. 60, lire 1), aggiungendo i testi dei volantini precedenti. Nel 1934, un libretto per il Carnevale ("Ridere...Ridere...Ridere...!" - Tip. Zampetti, pag. 32, cent. 50), e tre mesi dopo "La Festa de Maggio" (Tip. Zampetti, pag. 32, cent. 50) in onore della Festa della Madonna delle Grazie. Nel 1935, "Carnevale poeta" (Tip. Zampetti, pag. 24, lire 1), e nel 1936 "Carnevale e le sanzioni" (Tip. Zampetti, pag. 88, lire 1). Sospesi i festeggiamenti del Carnevale nel '37 e nel '38, Candidi saluta il ritorno del Carnevale, nel '39, con "Carnevale risorto" (Tip. Zampetti, pag. 58, lire 3). Esso contiene un "Inno a Velletri" dello stesso autore, che sarà anche stampato su volantino. Poi cominciano i guai: c'è aria di guerra, e si esaurisce l'estro di Candidi poeta; o forse, meglio, viene ferita l'anima di Candidi poeta. Mentre da una parte c'è chi ritrova l'estro, e dall'altra chi continua ad averlo cambiandolo solo di segno, Candidi si rifugia nella sua dimensione, il lavoro e l'agricoltura, che nonostante le vicissitudini del mondo non possono concedersi, per il bene comune, abbassamenti di tono o perdite d'estro. Il 21 settembre 1940, per la XI Festa dell'Uva, un piccolo foglietto con due quartine e due terzine, in italiano. Il 5 maggio 1945 per la prima festa della Madonna delle Grazie, riorganizzata dopo lo sfollamento e la distruzione di Velletri, Candidi riappare con un foglietto, un pieghevole formato santino con un'ode alla Madonna, in italiano. Costa 3 lire, a totale beneficio del locale asilo infantile. In calce, una preghiera, nella quale sono riassunte le due anime inalienabili di Candidi: il lavoro e la fede. In definitiva, pur essendo il sentimento di Candidi tutt'altro che monocorde, dobbiamo riconoscergli una rara coerenza. L'ultima uscita poetica di Candidi fu per il Carnevale 1948: un povero volantino, come poveri furono i primi, per un Carnevale (s'avverte nei versi) ben poco sentito, mentre gran parte della città era ancora da ricostruire dopo i bombardamenti. E a quel personaggio Carnevale, che Candidi vede, a differenza degli anni passati, col volto buio, il poeta fa una promessa: se si darà da fare per far divertire la gente, tutti i popoli del mondo s'abbracceranno.

Lo Stile


I versi di Candidi fluiscono senza intoppi: cioè è dovuto non solo ad una felice scelta della metrica che consente un ritmo - oseremmo dire - "fisiologico" per un pubblico popolare, ma anche e soprattutto per la disinvoltura con la quale il poeta sapeva muoversi nel vocabolario dialettale. Non esistono in Candidi né circollocuzioni alla ricerca dell'occasione di fare la rima, né stiracchiature di fonemi che vorrebbero essere dialettali, e invece consistono in storpiature dell'italiano, per aggiustare il verso. Mirabile, in tal senso, è il suo "Carnevale e le sanzioni", dove l'autore esprime una serie di consigli per il risparmio e la produttività familiare. Dalle attività domestiche delle massaie, all'agricoltura, all'allevamento dei conigli, alla concia delle pelli, la composizione gareggia alla pari con testi tecnici, e nonostante il vincolo del ritmo, della metrica, della rima, riesce a martellare versi senza che una sola parola vada sprecata o non serva alla bisogna. Sarà infatti spesso difficile in questa antologia, nell'impossibilità di trascrivere per intero le opere di Candidi, sostituire i versi con una sintesi in prosa, nel tentativo di riassumere i concetti.
Candidi esordisce nel 1928 con gli endecasillabi, che continua ad usare per il Carnevale del '29 e del '30, ma già per la Festa dell'Uva del '30 sperimenta la più popolare quartina settenaria. E' nel '31 che stabilisce il suo stile caratteristico, quello col quarto verso tronco in "a" accentata, e di cui abbiamo già parlato nel capitolo "Le poesie sulla stampa cittadina". Per la Festa dell'Uva '32 e '33 usa il decasillabo, col quarto verso tronco rigorosamente di nove sillabe che, come già detto, ne vale dieci. Contemporaneamente, in occasione dei carnevali, usa versi più orecchiabili: settenari nel '31,'35 e '36, e ottonari nel '32,'33,'34 e '35, ma sempre col quarto verso tronco. Non crediamo che tale osservanza stilistica sia da attribuire tanto a scelte operate scientemente, quanto ad una acquisita musicalità derivata da una probabile passione per le letture classiche.
Imbastire un discorso tecnico stilistico sulla produzione poetica dialettale non è pedanteria né inutile esercitazione dialettica: anche se l'autore non se ne rende conto, un verso parisillabo e uno imparisillabo hanno, anche all'orecchio distratto o incolto, una diversa godibilità, quindi popolarità, quindi successo nel pubblico. Il verso imparisillabo ha uno schema metrico più vario, mentre il parisillabo lo ha fisso, e perciò risulta più monotono, il suo ritmo è quasi martellato, intenso, e perciò cantabile e popolaresco. Lo stesso Dante definisce rozzi i versi parisillabi, e dice che "per la loro rozzezza noi italiani li usiamo di rado". Ma non esiste un verso bello e uno brutto; esiste invece il verso adatto per il genere di opera, e per il pubblico a cui essa è rivolta. Se Candidi invita i suoi concittadini a comprare le poesie carnevalesche e a cantarle in strada, deve usare versi elementari, sia pure rozzi, e orecchiabili. Se egli scelse invece il lungo endecasillabo per il lavoro " 'O muorto resuscitato", probabilmente "sentiva" – se proprio non "aveva" – i suoi buoni motivi. Infatti l'endecasillabo è considerato il più bello, il più ricco e il più vario dei versi italiani, e con la varietà degli accenti secondari e delle cesure permette infinite sfumature ritmiche e infiniti effetti d'armonia. Maggior merito a chi lo usa senza sapere tutto questo, come probabilmente Candidi: ciò significa essere poeta, e non ragioniere della sillaba. Facendone un discorso utilitaristico, l'endecasillabo è più adatto a un'opera narrativa, e basti vedere la Divina Commedia (e per Candidi basti vedere " 'O muorto resuscitato"), mentre un verso più breve s'adatta a concisi enunciati, battute lampo, laconiche e talvolta slegate espressioni di sentimento. L'utilità, a prescindere dallo stile, sta nel fatto che nell'endecasillabo si ha bisogno di cercare la rima ogni cinque, sei, sette parole, mentre nel settenario occorre una rima ogni tre, quattro parole. E si aggiunga il verso tronco: in italiano occorre una parola tronca, cioè accentata in fine, o un verbo troncato, cioè con perdita dell'ultima vocale (veder; sentir; ...). In velletrano ciò è molto più facile, perché la normale dizione dei verbi all'infinito è già tronca (vedé; sentì; ...) e non avendo l'ultima consonante dopo l'accento, ottiene un effetto particolare o, quantomeno, caratteristico.
Come già fatto per altre opere, e come sarà prassi in questa antologia, abbiamo apportato impercettibili aggiustamenti nella grafia, soprattutto negli accenti, negli apostrofi, e nelle elisioni di cui il nostro dialetto è pieno. Ma non troppo, specialmente per Candidi, per non alterare una sua caratteristica: egli infatti usa scrivere, specialmente nell'opera che segue, certe espressioni così come vengono pronunciate, e cioè con due o tre parole unite grazie ad elisioni, e separate solo da un apostrofo. Per esempio, "stong'abball'o fuosso" (sto giù nel fosso), oppure "l'agnime più trist'all'atro monno" (le anime più tristi all'altro mondo). In questi casi, siamo intervenuti solo laddove era necessario per una maggiore comprensione del testo.


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PER ALFREDO CANDIDI POETA

 

(i suoi canti della terra, dell’uva e del vino)

Stongo qua pe' datte 'o cambio *1
pecché ce si chiest' aiuto
è pareccio che nu' te rifiuto *2
p'arimare 'nziemi co' tti. *3

Tutti l'agni me venze 'a briga
d'arispogne pe' chilli stornielli
ma pe' corpa de cento cervielli
'n te so puto mmai 'contentà.

Chi 'a volea cotta e chi cruda
chi 'a volea quadra e chi tonna
po' m'ha ditto Peppe La Fronna
ch'i stornielli poteo seguità.

So' ciarlato co' Dancretuccio
ch'i probbremi so' tutt'aremasti
puro l'"asini" co' griossi mmasti *4
sconfineno gli'ua a straportà.

Si tenuto sembre raggione,
si 'ngollato da solo 'a soma
mmai gnisuno t'à dato 'ndiproma
co' l'immidia de fatte schiattà.

Si cantato gli'ua dorge 'ndorata,
te si misso vicino a gli Vati
"'n sassetto coll'atri ammassati" *5
'mbello posto t' 'o po' merità.

Te dicio ch' 'a storia è gl'istessa,
si n'ce credi che puozzi venine
'o stradello, 'n t' 'o tengo da dine *6
co' dù' bocce me faccio trovà.

Tutti quanti scinciorno 'e vigne
pe' piantacce li kivi ritonni,
s'arevoteno l'ossa d' 'i nonni
che le vite so' stati a piantà.

Mo' ch' ariva la Festa degli'Ua
a' 'i caretti ci' attaccheno cazzi,
pe' li colli, 'e rase e gli stazzi
chella poca 'a vanno a cercà.

Gli’ua reggina ci' ariva da fori,
'o bbellone e 'a fragola puro,
pizzutello e 'o moscato più scuro
co' chella corna t' 'a fanno pagà.

Comme vedi, pe' datte 'o cambio
'n ci' aremasto gnente da dine
da 'o tiempo tio è rivata 'a fine,
io nun saccio andò accapezzà.

Te dicio solo ch'è tutto cammiato,
manco Ddànte co' tutto lo storno
ce se po' riggirane qua attorno,
quanno tu te ce stevi a piglià. *7

T'aringrazzio co' tutto lo core
che co' tti me so' puto sfogane
'a ggente pienza 'ntanto a magnane
e po' gli'ua s' 'a vanno a crompà.

Me 'spiace de datte cordoglio
ma Velletri se svotata pareccio
pur'io me so' fatto po' vieccio,
e lo Corzo se st' 'à spopolà.

Chesta Festa t' 'a so' dedicata
pecchè pochi t'ònno dato parola
e ssì llà 'ncima varemo a cà' scola
se 'ncrontemo pe' potè' stornellà.

Moreno 5 - 9 - '16
Per la Festa dell'Uva 2016

*1 - richiesta da: IV Festa dell'Uva1933
*2 - dal 1987 che scrivo imitandoti la rima
*3 - per far le rime
*4 - trattori che portano uva fuori
*5 - da: Pe' gl'uva - 1933
*6 - da: 'o muorto resuscitato - 1928
*7 - suo riferimento ai "Vati"